Agrigento, ricordava Tano Siracusa da queste pagine in un intervento che mi pare eccezionale per forma e contenuti, divenne caso internazionale, fu l’emblema della dissennatezza del costruire a dismisura. Io non credo che Agrigento fosse stata più dissennata di qualunque altra città italiana, ma qui le contraddizioni esplosero in maniera più eclatante e con maggiore fragore.
Oggi non ci fa più impressione lo sviluppo verticale delle costruzioni, ci abbiamo fatto l’abitudine e ci pare normale, ma non lo era sul finire degli anni cinquanta e nei primi sessanta quando, ragazzino, guardavo con stupita ammirazione all’Empire State Building di New York e qui, in piccolo, più modesto ma su quel modello, a quello che conosciamo come palazzo Vita.
Era una vera sfida dell’uomo all’Onnipotente o forse un avvicinarsi a Lui, quel costruire verso il cielo e addirittura nel cielo; ma comunque la si voglia mettere, era per tutti, agli occhi di tutti, e quando dico tutti voglio dire proprio tutti-tutti, governanti e oppositori, conformisti e liberi pensatori, laici e clericali, liberali e comunisti, tutti–tutti, era progresso e sviluppo, emblema e compendio della rinascita economica del Paese. Qui come dovunque.
Sappiamo tutti, ma dimentichiamo, che la nuova Palermo, per dirne una, è cresciuta a dismisura, divorando ettari ed ettari di agrumeti; quei parallelepipedi enormi ai quali ci siamo perfettamente abituati sono stati costruiti a fianco delle bellissime ville e palazzine liberty, senza soluzione di continuità fino ad arrivare alle falde delle montagne che circondano a sud la Città e fino a Sferracavallo. Della Conca d’oro è rimasto qualche pezzettino proprio a ridosso delle montagne e l’oro delle arance è stato sovrastato dal grigio del cemento e dell’asfalto.