Opache e reticenti a dispetto della loro trasparenza referenziale, le fotografie rimangono offerte a sguardi che non sempre le riconoscono uguali a se stesse.
Nel 1999 andavo in Cile per la prima volta. Cercavo di cucire ciò che sapevo del suo passato recente a ciò che si mostrava in una Santiago lustra e indaffarata, a Valdivia, a Castro, nella fosca isola di Chiloè dove piove 300 giorni l’anno.
Pinochet aveva lasciato da poco il suo ultimo incarico istituzionale di capo dell’esercito, mentre da nove anni, a seguito del plebiscito e delle successive elezioni, aveva dovuto abbandonare la presidenza del Cile. Eppure il potere e il prestigio del vecchio dittatore incombevano ancora sul paese e lo dividevano, intimidivano il governo di Lagos e una parte della stampa, eccitavano ricordi recenti, forse presagi. Fotografavo andando in giro, ascoltavo.
Un uomo visto da dietro le persiane che sembrava fuggire nella strada vuota, i cani randagi, certe facce sui giornali e tutti quei militari davanti al palazzo della Moneda, una vecchia che ricordava i morti sui marciapiedi e diceva ‘malo Pinocio’, una ricca proprietaria che raccontava della paura quando pretendevano con Allende di rovesciare tutto, che ora si divideva, si faceva a metà, e lo raccontava sotto un ritratto ad olio del dittatore in divisa, in una villa che mimava splendori settecenteschi ai bordi di Los Sauces, un piccolo centro a qualche ora da Temuco in una zona abitata dai Mapuche, indios che in quelle settimane avevano conquistato le prime pagine dei giornali.
Avevano inscenato proteste, bruciato qualcosa nella selva, si era sparato.
La buona notizia è che sull’isola tre donne sono incinte. Non succedeva da anni. All’anagrafe di Linosa risultano residenti più di 400 persone, in realtà di inverno sull’isola ne abitano meno di 300.
Pochi bambini, molti anziani, ma per loro Linosa è un paradiso dice Pietro un cinquantenne, proprietario di uno dei tre bar che ad orari incerti aprono anche d’inverno.
I giovani sono partiti, sono andati a lavorare e mettere su famiglia nelle città del nord o fuori dall’Italia. Operai, diplomati, laureati. I nonni sull’isola, i figli e i nipoti sulla terraferma, lontano.
Giovani infatti se ne vedono davvero pochi.
Uno dei trentenni rimasto sull’isola, Enzo, fa il pescatore. Ieri ha preso una cernia di 13 chili e molto altro pesce pregiato, ma le due notti precedenti non aveva pescato niente.
D’altra parte, dice il proprietario del bar, questa non è mai stata un’isola di pescatori, ma di contadini.
Il nostro archivio di voci differenti raccoglie, oggi, la storia di un giovane africano, disputata al silenzio dalla sensibilità di un nuovo collaboratore. Se i “compagni dell’avvenire” si chiederanno chi è stato Mouktar Kante, forse saranno severi con noi. A quei posteri che immaginiamo uomini giusti chiediamo indulgenza: fummo archivisti, non altro. G.V.
Parlare di pace in un momento storico nel quale anche il termine “guerra”, e la percezione a questo correlata, ha subito delle metamorfosi che ne decentrano il significato verso slittamenti interpretativi che confondono più che orientare e smentiscono la verità più che mostrarla, significa centrare il fatto della violenza diffusa che ancora regna in mutevoli e svariate forme, in quasi tutte le aree del pianeta.
Tanti anni fa Torino era stata una sorpresa. Immaginavo la città della Fiat, della classe operaia, degli immigrati, una città grigia e dura, ma in quella mezza giornata uscendo da Porta Nuova avevo visto attorno a me la città sabauda, le piazze, i giardini, i monumenti, i viali e i portici, i negozi eleganti, e poi il lungo Po e di fronte le colline dove si avventuravano di notte i personaggi di Pavese.
Non sempre l’impressione che ho avuto di un luogo, di una città, ha avuto un riscontro puntuale nelle riprese fotografiche. In posti infami, di cui ho ricordi confusi perché si tende a dimenticare ciò che non è piaciuto, ho scattato delle fotografie che potrebbero suggerire un incanto inesistente del luogo, almeno per l’esperienza che ne avevo fatto.
Di ritorno da Barcelona ho potuto invece verificare una sorprendente specularità fra il ricordo complessivo ed essenziale che conservo della città e le molte foto che ho scattato. Quel ricordo ha a che fare con il piacere di spostarmi e di vedere. Di vedere ovunque attorno a me una cifra di buon gusto: non solo le piazze, gli slarghi, le strade eleganti dei negozi, le grandi architetture storiche, le testimonianze di un passato importante innervato e non sconvolto dalla modernità, ma quel tipo di decoro urbano che può essere il prodotto soltanto di una cultura profonda e diffusa degli abitanti prima ancora che delle élites e delle istituzioni, di un senso forte dello spazio pubblico come spazio comune da curare. E poi, certo, le architetture e gli interventi urbanistici più recenti, spettacolari, azzardati a volte, ma sempre funzionali a una strategia del bel vedere. Un vedere che è ovviamente mobile.
Spostarmi soprattutto a piedi, ma anche con la metropolitana, con gli autobus, usando ascensori e scale mobili è stato un piacere strettamente legato a quello visivo. Insomma, il ricordo complessivo ed essenziale che ho di Barcelona è quello di una città che si lascia percorrere facilmente senza automobile e facilmente affidando lo spostamento a modalità e tempi diversi.
L'operazione del fotografare è un sottrarre, un togliere, come per gli scultori. Come quella di un sarto che ritaglia nel tessuto della sua esperienza visiva, mai identica a se stessa, incessantemente variata nello sguardo.
Questo è vero per ogni singolo scatto, ma lo è anche per il fondamento del gesto fotografico che è poi la libertà, la scelta del fotografo di inclusione-esclusione fra ciò che vede. Alla fine un reportage, almeno nella memoria del fotografo, è attraversato dalle assenze, dalle esclusioni, quegli scatti che si è deciso di non fare, a volte sbagliando si capisce: ma questo lo si pensa sempre dopo.
Nel 2004 ho fotografato in Perù per più di un mese. Da Lima a Cajamarca, Celendine, Tarapoto, Lamas, Iquitos. E poi Cuzco, Arequipa. Autobus sgangherati, battelli dove si dormiva sulle amache, taxi che sfrecciavano all’alba nella foresta per i frequenti agguati. Città, villaggi, fiumi, laghi, montagne. Contesti diversi, incontri, spaesamenti. A volte semplicemente la luce era una sorpresa. E diffuse, disperse fra processioni, petardi e sonnolenza, le tracce della violenza.
Viaggiando da Essaouira a Chefchaouen si attraversano circa 700 chilometri. Stradine di montagna, strade nazionali, autostrade, villaggi a mare, paesaggi desertici e fiumi fra valli verdeggianti, le periferie di Safi, Rabat e Casablanca, Tetouan andalusa, e infine Chaouen, con la sua medina fiabesca.
Nel 2008 Suddovest pubblicò UN TESTO DEL '68 DI LEONARDO SCIASCIA MAI STAMPATO. Il maestro di Regalpetra descriveva i motivi della mancanza di acqua in Sicilia. E' giunta la scadenza (il 2015) indicata da Sciascia, ma l'acqua - come scrive Attilio Bolzoni su la Repubblica - ad Agrigento è ACQUA PAZZA.
Alla fine, di sera, smontano anche i negozietti di artigianato, arrotolano le pareti di plastica, portano tutto via, e le strade e le piazze ormai vuote di Trinidad esibiscono la principale attrattiva della città: il duro acciottolato in pietra che verrà solcato dagli zoccoli dei cavalli, dai risciò a pedali, da motociclette e vecchie macchine americane e camion sbuffanti un fumo nero e acre che si dirada solo nelle periferie, dove anche l’acciottolato finisce e il sentiero costeggia una piccola valle profonda, verde di sfarzosa vegetazione tropicale. E’ su questo sentiero che incontriamo Juan.