PROGETTARE LA RINASCITA DELLA CITTA' di Tano Siracusa
E’ difficile immaginare cosa sarà l’Italia e come sarà il mondo fra 5 anni. Meno difficile comprendere che la sopravvivenza della sinistra è legata alla sua capacità di produrre un vero e proprio processo di ricominciamento. Nell’analisi della realtà, nella selezione delle priorità, nell’apparato simbolico e nel linguaggio, nelle forme di partecipazione democratica e di selezione dei gruppi dirigenti, nella capacità di connettere le specificità locali ai macrocontesti che le inquadrano, il tempo breve delle convenienze contingenti ai tempi lunghi della fase storica che viviamo.
Qui ad Agrigento: si potrebbe cominciare a precisare una idea diversa della città, che riconosca innanzitutto il fallimento del suo modello ‘moderno’ e che la ripensi per un ruolo turistico e culturale di primo piano nel mediterraneo del nuovo secolo.
Provo ad utilizzare qualche spunto offerto dall’ intervento di Nino Cuffaro, curvandolo in una prospettiva di scorci e stacchi storici.
‘Fra le brutture la cultura non può abitare’ scrive Cuffaro, riproponendo il tema della decostruzione. Dei tolli da abbattere. Decostruzione, demolizione: parole tabù ad Agrigento, e perciò sempre nuove. Eppure.
28 anni fa pubblicavo su Proposta un articolo che Diego Romeo aveva titolato (vado a memoria) ’Il comunismo non può abitare fra case così brutte’. Non credo che Nino Cuffaro abbia mai letto quel mio articolo, ma è singolare che più di un quarto di secolo dopo qualcuno pensi, quasi con le stesse parole, il nesso fra lo sviluppo della città e la rimozione di alcune forme che il moderno ha depositato nel nostro territorio.
Non è cambiato niente in questi 30 anni. Chi viene ad Agrigento visita la valle, sta un giorno, massimo due, e se ne va. Ce lo diciamo da decenni: era così quando scrivevo quell’articolo ed è così oggi. E sarà così anche quando ci sarà un inutile, costosissimo e stravagante aereoporto sulle colline di Racalmuto, nei luoghi di Leonardo Sciascia.
Ma la valle, il sogno della classicità, è solo una dimensione, uno strato del nostro territorio, la cui complessità si distendeva in una straordinaria continuità territoriale nella città araba e poi chiaramontana e barocca. E’ in questa ricchezza, nella complessità di questa stratificazione di civiltà, di mondi culturali diversi che Agrigento rivela la sua identità più profonda, così congeniale oggi ad un ruolo di grande mediazione culturale su scala mediterranea.
Basti pensare a S. Calò, l’evento cittadino culturale e religioso più ricco di sedimenti storici, festa che mescola elementi pagani, bizantini, ispanici, arabi.
Ma è proprio questa identità complessa, questa cifra sincretistica, che la città ha perso nel secondo dopoguerra. La modernità ha avuto da noi il segno della cesura, della sconnessione traumatica con il passato e fra le stratificazioni di quel passato millenario.
La quinta di palazzoni costruiti fra gli anni ‘50 e ’60, cinturando da sud il centro storico, ne ha spezzato la relazione visiva con la valle e il mare, ha interrotto fisicamente e simbolicamente il rapporto fra i diversi mondi culturali che hanno abitato questo territorio.
Non vi fu allora alcuna opposizione. Gli abitanti della città e la sua intera classe dirigente riconobbe nella verticalità dei tolli un segno e un sogno ‘americano’, il segno del benessere, l’avvento della modernità. Quando, nel ’66, la frana ha svelato al mondo intero una città sfigurata, Agrigento è diventata un caso internazionale di scempio urbanistico.
E dopo la frana è cominciato l’esodo, lo svuotamento del centro storico, il suo progressivo abbandono e degrado. Le scelte del primo piano regolatore, il mancato utilizzo dei fondi destinati ai centri storici di Agrigento e Siracusa, la storia infinita del piano per il centro storico, hanno alla fine disegnato una città satellitare ma senza più un centro, con l’asse valle-centro storico spezzato da una gigantesca quinta di cemento: da 40 anni il visitatore che arriva ad Agrigento attraverso il ponte Morandi (altro orrore, ma almeno con una ragionevole funzione pubblica) non può immaginare che dietro quelle torri di cemento si estende la città tufacea, con i suoi vicoli, i suoi cortili, i suoi slarghi, le sue chiese seicentesche, la sua cifra urbanistica convulsa e al tempo stesso prodigiosamente armoniosa. Vede i palazzoni, i tolli.
C’è stato un momento in cui Agrigento ha avuto l’occasione per fermarsi, osservarsi, invertire la rotta, ma quel momento è stato lasciato passare. E’ stato quando il progettista Rizzo ha presentato il piano particolareggiato per il centro storico. Quel piano prevedeva il taglio dei piani alti dei palazzoni.
Ciò che Argan, Bocca, decine di intellettuali avevano vagheggiato veniva proposto da un tecnico (non da un politico) come concreto intervento di risanamento urbanistico. Come necessaria, ovvia premessa, per progettare in modo realistico il recupero del centro storico, un suo rilancio turistico, abitativo, culturale, commerciale, cioè economico.
Bisogna ripartire da lì. La premessa per opporsi al declino della città è quella indicata dall’ing. Rizzo venti anni fa: rimuovere, cancellare i segni più abnormi e sfiguranti della sua modernità urbanistica. Da lì, da questo scenario esemplarmente post-moderno, la sinistra deve ricominciare a pensare la città e se stessa come futura classe dirigente.
Allora quest’idea venne fatta cadere, non se ne parlò o se ne parlò per dire che era una sciocchezza, una furbata o una follia. Irresponsabilmente Arnone si fece allora megafono di questo punto di vista.
Forse oggi i tempi sono più maturi. Oggi è più chiaro come questo modello di sviluppo fondato sull’illimitata sottrazione di risorse naturali e sull’illimitata produzione di beni materiali, sia talmente distruttivo da essere già diventato autodistruttivo. Si comincia a capire che nei paesi ricchi di beni materiali come il nostro, il benessere deve orientarsi verso la produzione di beni immateriali, ad alto contenuto simbolico, culturale, estetico, spirituale. Che operare lungo questo versante della crisi, quello della solidarietà, della produzione e dello scambio culturale, è conveniente anche economicamente, in termini di occupazione e di reddito.
Oggi è forse più facile capire che Agrigento può risorgere solo proponendosi come un caso internazionale di risanamento urbanistico, ritessendo e ricomponendo il territorio nel segno del suo passato millenario e oltre i segni di una rovinosa modernità.
Decostruire il diaframma di cemento che separa la città classica da quella medievale, ricomporre l’asse valle-centro, mettere mano alla riqualificazione del centro storico come area residenziale, culturale, di servizi e di fruizione non consumistica del tempo libero. E’ questa l’idea.
Una città il cui centro storico sia ricco di locali, di piccole strutture di recezione turistica, di servizi dove gli immigrati vengono accolti con umanità ed efficienza, di sale espositive, di musei, di teatri, di cinema, di sedi universitarie, di spazi musicali, con una intensa attività culturale che avrebbe come orizzonte il mediterraneo. Ma soprattutto un pezzo di città dove tornare ad organizzare una dimensione della quotidianità basata sulle piccole distanze percorribili a piedi, sul piccolo commercio, sulla produzione artigianale. Con l’uso di moderne tecnologie per risolvere il problema della mobilità: anni fa si era discusso di scale mobili.
Progetto dai tempi lunghi, è chiaro, dai costi importanti. Ma intanto cominciamo a discuterne? Degli strumenti urbanistici necessari, della fattibilità tecnica, della mobilitazione di risorse europee?
In questi anni si è spesa un’enormità di danaro pubblico per cementificare fiumi e coste, per trivellare montagne e costruire strade che si perdono nel nulla, o dighe inutili, o ponti giganteschi con i pilastri affondati nelle necropoli paleocristiane. O per progettare aereoporti. Si può pensare di chiedere soldi per risanare uno dei territori più belli del mediterraneo e offrirlo alla comunità internazionale?
Certo, servirebbe anzitutto un nuovo ceto politico, giovane anche anagraficamente, in grado di fare coincidere il tempo individuale con quello di una vicenda collettiva prevedibilmente lunga decenni. Una vera classe dirigente agrigentina insomma, come non c’è più stata negli ultimi 50 anni, come non è quella attuale di maggioranza, brava a soddisfare col sorriso stampato in permanenza sulla faccia le urgenze, gli estri, i capricci, le mattane bonapartiste del Capo.
Il lodo Alfano. Oggi il nome di un agrigentino si lega al passaggio dalla seconda repubblica ad una specie di sultanato senza precedenti nella storia occidentale moderna. Ci sarà fra cinque anni un altro giovane agrigentino che potrà legare il suo nome ad un progetto di rinascita della città?