Può succedere, viaggiando attraverso la steppa mongola, di pensare ad un tratto a Pasolini e al suo articolo sulle lucciole. A me è successo quasi un anno fa sulla pista che da Ulan Bator porta a Dashbalbar, non lontano dal confine con la Cina. Per ore avevamo viaggiato sull'onda verde della steppa incontrando soltanto mandrie di cavalli e di cammelli e neppure un albero; ogni tanto una tenda, a distanza di qualche chilometro un'altra tenda, e poi di nuovo il nulla.
La macchina si era poi fermata ad un incrocio di piste, ad un paio di chilometri da un surreale agglomerato di palazzoni che esibivano le orbite vuote delle finestre come un'attonita protesta.
Anni fa, un'epoca fa, il governo comunista aveva deciso di far sorgere lì, nel deserto della steppa, un centro abitato. L'esperimento però non aveva neppure avuto inizio: forse il crollo del comunismo o semplicemente la dimensione fantastica, allucinatoria del progetto, così intrisa di atmosfere kafkiane e buzzatiane, ne aveva impedito la realizzazione.
Ma a farmi pensare a Pasolini non era stato tanto lo spettacolo di quel fallimentare conato modernizzatore, quanto la presenza di un'autostoppista. Dove la nostra macchina si era fermata infatti è apparsa una donna con un paio di grossi fagotti che ha chiesto un passaggio. Una donna precocemente matura, moglie di qualche mandriano, madre di chissà quanti figli, che faceva l'autostop. Ho pensato allora a Pasolini e a quel famoso articolo. Ho pensato che così come in Italia all'improvviso erano scomparse le lucciole, pochi anni dopo sono scomparsi gli autostoppisti.
Certo, la scomparsa degli autostoppisti non annunciava il cambio di civiltà segnalato dalla scomparsa delle lucciole, ma era comunque espressione di una modificazione profonda nella trama emotiva dei rapporti fra gli individui, nelle forme elementari della comunicazione sociale, almeno nelle società occidentali.