«Non ti ho chiesto io di partire, avevo detto. L’hai voluto tu, bello mio, se non volevi bagnarti non dovevi imbarcarti. Non sono stata io a spingerti in acqua e non sono certo venuta io a cercarti nel tuo villaggio o nel tuo campo profughi o nel tuo schifoso sobborgo per strapparti da lì e metterti su quella tua fottuta barca che fa acqua da tutte le parti, e adesso annaspi, e ci credo che hai paura, e mi chiami in soccorso come se fosse colpa mia, e mi chiedi di salvarti e ti spazientisci. Conti su di me. Ma io non ti ho chiesto niente. E allora lasciami fare il mio lavoro e rassegnati ad aspettare».
“Naufragio”, di Vincent Delecroix, da poco tradotto in italiano, è l’immaginario, straziante monologo della responsabile di un centro di soccorso marittimo. La vicenda è realmente accaduta: il 24 novembre 2021, una notte fredda, un gommone con 34 persone stipate a bordo lasciò le coste francesi verso la Gran Bretagna. Quasi a metà percorso, il motore si fermò e i tubolari cominciarono a sgonfiarsi. Partirono allora dai naufraghi molte chiamate - quattordici - ma l’operatrice della Marina francese non mandò aiuti, ritenendo che toccasse al soccorso inglese intervenire. Morirono, dopo tre ore di attesa, in un canale che i traghetti attraversano in novanta minuti, 27 persone, tra cui una bambina.
Il romanzo tocca la sottile demarcazione tra l’agire male e l’agire per il male, descrivendo la solitudine abbattutasi sulla responsabile di una tragedia che, è vero, parte da lontano (“erano annegati ancor prima di trovarsi in acqua”) ma su cui l’autore ultimo appone la propria firma. Perché «non è affatto necessario attribuire il male a una causa soprannaturale, gli uomini sono ben capaci da soli di ogni malvagità» (Joseph Conrad, “Sotto gli occhi dell’Occidente”).