Quando sono stato invitato a partecipare alla presentazione del il numero di Segno ora in distribuzione, avevo pensato di svolgere alcune mie considerazioni sulla Riforma protestante che ritenevo e che ritengo connesse a cose dette in occasione della presentazione del numero precedente; considerazioni che, dal mio punto di vista, valevano a sostenere le ragioni della continuazione della pubblicazione della Rivista.
Sto in bilico fra attualismo e passatismo, forse; non mi sento ancora un reduce –reduce di che, poi? Non della Campagna d’Africa e neppure della Guerra di Crimea, naturalmente, ma neppure delle barricate e degli scontri ideologici e anche fisici del mio sessantotto; perché per essere reduci bisogna che l’impresa alla quale s’è partecipato sia finita e la mia non è affatto finita, ho la pretesa di pensare che continui ancora e che non s’arresti; e tuttavia, non reduce, sono consapevole di non avere un futuro lontano davanti a me, ma solo prossimo e vicino.
C’è un dibattito nella chiesa palermitana in cui si discute della vita della gente, delle famiglie, dei giovani. Un dibattito non poco opportuno cui è quasi un dovere partecipare. Se il dialogo e il confronto diventano cultura nella Chiesa, anche la città si farà più ricca e solidale.
Carissimi amici, sento di dovere intervenire nella discussione avviata dallo scritto di Giandomenico con poche sincere considerazioni. Il tempo della nostra ventura terrena declina. Finalmente possiamo guardare al presente, e maggiormente al futuro, con il distacco e la lucidità di chi non ha più nulla da sperare o pretendere dal suo tempo, né la velleità di migliorarlo o esserne migliore. Non si tratta di riconoscersi protagonisti del proprio tempo, o testimoni di un tempo in cui lo fummo, bensì e soltanto di capire chi o cosa siamo diventati nel frattempo, e se questo scorcio di mondo in cui ci è dato consumare il nostro commiato ci coinvolga e sospinga ad un qualche dovere di presenza, ovvero ci respinga in una deliberata e, per molti versi, spensierata assenza. Per quanto mi concerne, la mia parte in questo finale di partita è quella dello spettatore, niente di più. Spettatore inorridito, depresso, allarmato, incredulo, sdegnato, insofferente, rassegnato, e per legittima difesa sempre più indifferente e sordo.
Hegel diceva che nessuno può elevare il proprio punto di vista al di sopra del proprio tempo, ma anche quando non si è più giovani restiamo nel nostro tempo e talvolta qualche invettiva. anche se non ci si addice, forse merita di essere detta proprio perché il nostro stesso tempo ci spinge a farlo.
Devo all’esempio discreto ma cogente di un maestro ed amico, il dottor Joseph Tower, se recentemente ho saldato un vecchio debito con me stesso, leggendo L’educazione sentimentale di Gustavo Flaubert, ineludibile romanzo di formazione, dal quale lettori comuni e intellettuali creativi, a distanza di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione, continuano a trarre durevoli orientamenti psicologici e raffinati modelli espressivi e immaginativi.
Circola da tempo un aneddoto (un apologo?) che, se non è vero, potrebbe presto o tardi diventarlo: un turista giapponese, dopo una giornata in giro per calli e campielli, sul far del crepuscolo ferma un veneziano e gli chiede: “mi scusi, a che ora chiude Venezia?”
Vera o falsa che sia, la storiella del giapponese che scambia la città lagunare per un parco a tema che a una certa ora chiude i cancelli (il tema: Venezia) dovrebbe far riflettere sul pericolo che corrono le maggiori tra le nostre città storiche, a cominciare proprio dalla più imitata, dipinta, visitata e fotografata. Quale pericolo? Diventare appunto dei parchi tematici per turisti compulsivi e viaggiatori colti; per scolaresche chiassose e disciplinati pensionati che si godono il meritato riposo periodicamente visitando “la storia”.
La questione della salvaguardia dei centri storici è una questione cruciale, ma non può essere affrontata isolatamente, staccandola dalla più generale e vitale questione dello spazio urbano nella sua interezza. Così facendo si rischia di creare due micro mondi separati dal censo, due città che non comunicano: una turistica e pedonalizzata, abitata da benestanti che potranno sostenere gli alti affitti e i prezzi di vendita degli immobili; l’altra periferica e inquinata, destinazione obbligata di tutti quelli che non saranno più in grado di sostenere l’aumento dei costi degli alloggi.
I sociologi hanno dato un nome a questo esodo involontario dal centro alla periferia: “gentrification”, che in sostanza significa modificazione a scopi speculativi del carattere sociale dei quartieri antichi ma non solo.
Dunque è possibile. Anche in una città come Palermo, i cui abitanti avevano progressivamente convertito le automobili in costosissime e inefficienti protesi per spostarsi anche di poche centinaia di metri, anche in una città che meravigliava i visitatori per l'impatto sonoro e visivo del suo traffico, per la sua evidente insensatezza, perfino a Palermo è possibile impedire alle automobili l'accesso al centro.
Racconta Tullio Kezich che quando nell’ottobre del 1990 Federico Fellini si recò in Giappone per ricevere il prestigioso Praemium Imperiale, rimase incantato da diverse cose: il palazzo dell’Imperatore, la cena con Akira Kurosawa, la grazia dell’Imperatrice Michiko e soprattutto dalla cortesia, la discrezione e l’abitudine al silenzio dei giapponesi
Sembra che uno dei pochi vantaggi dell’età adulta, specie quand’essa è appesantita dalla ossessione della ineluttabilità del tramonto, sia questo: riuscire a discriminare con immediatezza il superfluo dal sostanziale, riconoscendo il vacuo, il superficiale, l’insignificante, optando decisamente per una riflessione onesta e generosa circa i reali interrogativi del nostro tempo.