LA CHIESA OSPEDALE DA CAMPO E LE FERITE DEI DIVORZIATI di Nino Fasullo

C’è un dibattito nella chiesa palermitana in cui si discute della vita della gente, delle famiglie, dei giovani. Un dibattito non poco opportuno cui è quasi un dovere partecipare. Se il dialogo e il confronto diventano cultura nella Chiesa, anche la città si farà più ricca e solidale. Ciò su cui si sta discutendo riguarda, in particolare, la possibilità per la Chiesa di accogliere alla mensa eucaristica alcuni che lo chiedano, pur avendo esperienza di un secondo matrimonio. Papa Francesco invita la Chiesa, e particolarmente i Vescovi e i preti, a esaminare la questione attentamente, con discernimento e responsabilità pastorale.

C’è un passo del Vangelo di Marco (Mc 10,1-12) che sembra suggerire una riflessione idonea a orientare la pastorale e a assumere iniziative coerenti e concrete.

Racconta l’evangelista che, un certo giorno, si fecero avanti dei farisei per domandare a Gesù se “è lecito a un marito ripudiare la moglie”. Gesù non rispose subito con un sì o un no netti, ma domandò a sua volta che cosa Mosè avesse loro “comandato”. I farisei risposero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di divorzio e di ripudiare”. Al che Gesù fece osservare che Mosè aveva sì “scritto tale precetto” ma a causa della “durezza del vostro cuore”. Concluse il discorso facendo presente che “dall’inizio della creazione” non era così: il divorzio non era nel disegno di Dio.

Questo dialogo tra Gesù e i farisei, oltre che pacato è anche suggestivo, lontano, in ogni caso, dalle durezze polemiche che talvolta appassionano i teologi. Vi si trovano, nel dialogo, interessanti dettagli o spunti che possono far luce alle scelte pastorali che la Chiesa è chiamata a assumere con serena responsabilità.

Il dialogo in Marco 10,2-5 suggerisce almeno due o tre osservazioni, fin troppo ovvie. La prima riguarda il fatto che Gesù – pur rilevando che i figli di Israele sono sclerocardiaci e che il divorzio prescritto da Mosè non cancella il “disegno” di Dio sul matrimonio – non pronuncia parole di biasimo o di condanna nei confronti di Mosè che ha autorizzato il divorzio. La seconda, invece, ha a che fare con l’esperienza storica: col fatto che, da Mosè a oggi, il cuore umano invece che ammorbidirsi si è fatto più duro, più refrattario al disegno di Dio. La terza, infine, è una domanda forse retorica ma tutta interna alla disciplina sacramentale (matrimonio-divorzio-eucaristia). Questa: se il pastore Mosè poté autorizzare, in nome della tolleranza, un divorzio per gli ebrei cardiosclerotici, perché i pastori del “tempo evangelico” – il Papa e i Vescovi uniti a lui – non potrebbero invitare alla mensa eucaristica e della misericordia dei battezzati che, per motivi che qui non staremo a analizzare, hanno un secondo matrimonio? Per caso il Papa e i Vescovi hanno meno potere e autorità di Mosè? O la misericordia di Dio è una parola vuota, priva di significato reale?

Ma qui si fa avanti una seconda immagine: la figura evangelica di “Gesù medico”. Mosè al suo popolo sclerocardiaco prescrisse come farmaco il divorzio. È pensabile che il medico Gesù, venuto “non per chi sta bene ma per i malati”, farebbe morire di fame e di sete i malati per secondo matrimonio escludendoli dall’eucaristia? L’eucaristia, oltre che “panis viatorum” è anche farmaco, come affermava il cardinale Carlo M. Martini, per i malati pure di cardiosclerosi. O non è vero che la chiesa, secondo l’immagine suggestiva di Papa Francesco, è “ospedale da campo” che accoglie feriti e cardiopatici di ogni genere? Infine, un divorzio non è una bestemmia contro lo Spirito santo ovvero un gravissimo “peccato di scribi”, l’unico che non si potrebbe perdonare.

La mancata “presa di distanza” di Gesù da Mosè dobbiamo intenderla come un caldo invito alla Chiesa a trovare serenamente una via d’uscita pastorale da un rigorismo che, alla luce del Vangelo, appare ingiustificabile, e meno ancora ascrivibile al cuore di Dio. La chiesa ha il potere e le energie sufficienti (più di quanti ne ebbe Mosè) per imboccare la via evangelica dell’accoglienza delle fragilità umane.

Chiudo questi rapidissimi cenni – che il dibattito può opportunamente approfondire – richiamando l’insegnamento di un grande della Chiesa: l’affidabilissimo sant’Alfonso de Liguori (1696-1787), tutor sopra tutti di pastorale e cantore della misericordia di Dio. Affermava il Santo napoletano che noi si può sbagliare in due modi: o col troppo rigorismo o col troppo lassismo (manica larga nella disciplina sacramentale); se però vogliamo seguire Gesù Cristo, e imparare da lui, “mite e umile di cuore”, dobbiamo fuggire dal rigorismo come dalla peste: il rigorismo non viene da Dio, al massimo proviene dalla nostra paura (ingiustificata) di Dio. Dobbiamo invece attingere a piene mani alla sua “copiosa” ovvero sovrabbondante misericordia. In fondo, il primo e vero “lassista” è Dio, per conto del quale Gesù narrò all’umanità la storia meravigliosa del Figlio prodigo. Perciò, è fuor di dubbio che i nostri eventuali eccessi in misericordia, Dio li mette tutti sul suo conto.

Aggiungeva sant’Alfonso che nella sua lunga vita – 91 anni! – di pastore e di confessore non mandò mai via dal confessionale nessuna donna e nessun uomo senza averli prima assolti: non per nulla in gioventù aveva fatto l’avvocato nel tribunale di Napoli per circa dieci anni. Si comprende così come lo stile alfonsiano assomigli tanto allo stile di Dio.

 

 

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