CHE FARE? MIGLIORI DEL PROPRIO TEMPO O DEL PROPRIO TEMPO I MIGLIORI? di Giandomenico Vivacqua

Devo all’esempio discreto ma cogente di un maestro ed amico, il dottor Joseph Tower, se recentemente ho saldato un vecchio debito con me stesso, leggendo L’educazione sentimentale di Gustavo Flaubert, ineludibile romanzo di formazione, dal quale lettori comuni e intellettuali creativi, a distanza di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione, continuano a trarre durevoli orientamenti psicologici e raffinati modelli espressivi e immaginativi. Per quanto mi riguarda, la lettura del capolavoro flaubertiano, autentico spartiacque nell’irrilevante carriera di un provinciale, sollecita alcune riflessioni sulla necessità di fare, e continuamente rifare, i conti con la propria generazione.

Una delle principali caratteristiche del bildungroman risiede nel fatto che le evoluzioni individuali dei personaggi vi sono rappresentate come intimamente connesse al mutamento storico, circostanza da cui deriva l’inanità di ogni tentativo di trascendere la propria età, di ergersi al di sopra o di sporgersi oltre il proprio tempo. Ogni generazione non scrive che la propria storia, dal punto in cui la generazione precedente ha sollevato la matita dal foglio. Ambizioni, speranze e fallimenti non sono condivisibili, tutto si genera e si consuma nel volgere degli anni che vanno dalla prima giovinezza alla maturità. Assunto il primo comando, attraversata la conradiana linea d’ombra, non rimane che il piacere di raccontarla. La militanza esistenziale lascia necessariamente il posto a una qualche forma di testimonianza. Quel che è stato è stato, irrimediabilmente.

Viaggiò.

Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto la tenda, la vertigine dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle simpatie troncate.

Ritornò.

Frédéric Moreau – il protagonista de L’educazione sentimentale, il provinciale di belle speranze mal riposte, l’ereditiere tradito dalla Parigi della terza rivoluzione, dissipatore delle sue sostanze non meno che del suo talento, irruento e irresoluto, fedele e libertino, uomo illeggibile ma decifrabile, dilacerato da diverse e opposte lealtà, consumato meno dagli eccessi gioiosi che dall’astinenza devota – Frèdéric Moreau, si diceva, nell’ultimo capitolo del romanzo, ormai archiviate le aspirazioni politiche, fallite le speculazioni finanziarie, naufragato il matrimonio, “verso la fine del marzo 1867, al calar della sera, mentre si trovava da solo nel suo studio”, riceve la visita di M.me Arnoux, l’eternamente amata e mai posseduta moglie di un grossolano e vitale maiolicaio. Alla luce di una lampada, la donna si toglie il cappello e mostra la chioma bianca.

“Fu come un colpo in pieno petto”, scrive Flaubert. E l’impietoso dettaglio suggella la fine di un mondo, la dolorosa rinuncia ai giochi di seduzione e alle strategie di conquista, nel cui vortice, uno dopo l’altro, scomparvero gli anni giovanili. Il romanzo è virtualmente concluso. Flaubert scrive ancora un paio di pagine, quelle che gli servono per aggiornare i lettori sulla sorte dei personaggi secondari e per mostrarci un Frédéric in vena di rievocazioni nostalgiche, acconciatosi a vivere da piccolo borghese, seduto accanto al fuoco insieme al suo amico Deslauries. Non gli rimangono che i ricordi e una ciocca di capelli bianchi “tagliati alla radice”. Ma i ricordi di monsieur Moreau nella penna di monsieur Flaubert sono diventati una lezione dal valore universale, una summa pedagogica d’insuperata potenza. Se anziché ritirarsi ai margini dell’esistenza propria e altrui, Frédéric fosse stato un campione di vitalismo oltranzista, se avesse ceduto alle insistenze dei suoi amici ed avesse finanziato una gazzetta polemica, se si fosse invischiato ancora in mille avventure, cosa mai avrebbe potuto dare di più alla fantasia del suo creatore, e per essa a noi?

C’è un tempo per vivere e un tempo per scrivere, si potrebbe dire, tra Pirandello e l’Ecclesiaste. C’è un tempo per vivere il proprio tempo e ce n’è uno per sforzarsi di capire e di tramandare ciò che si è vissuto, affinché i “compagni dell’avvenire” siano informati di noi e dei nostri casi, e nella giusta misura ne tengano conto.

“Non sarai qualcosa di migliore del tuo tempo, ma il tuo tempo nel modo migliore”, ammonisce il giovane Hegel: cosa penserebbe di noi, se pretendessimo di essere, addirittura, migliori di un tempo che non ci appartiene più?

Recentemente, con alcuni amici, sodali di iniziative editoriali del secolo scorso, abbiamo discusso la possibilità di rifondare uno strumento per la diffusione semiclandestina del nostro punto di vista sulle cose del mondo. Il confronto ha fatto emergere differenti opinioni sul senso complessivo e sulle finalità specifiche dell’impresa. Presto si sono formati due partiti, quello degli attualisti e quello dei passatisti.

I primi hanno sostenuto, con ottimi argomenti ispirati ad una visione alta e intransigente della comunicazione pubblica, che il giornale online (ché di questo si tratta), qualora effettivamente nascesse, dovrebbe occuparsi della realtà politica e sociale del nostro territorio, anche attraverso le modalità dell’inchiesta e della videointervista di soggetti investiti di pubbliche responsabilità, con lo scopo di fare emergere le contraddizioni e le insufficienze della loro azione.

I secondi, pur consapevoli della necessità di fare i conti le dolorose questioni del presente, hanno sostenuto di preferire, all’indagine giornalistica e all’escussione venatoria dei personaggi pubblici, una critica poetica e inattuale della realtà. Il contrasto, sanabile nella misura della stima intellettuale e dell’affetto che reciprocamente nutrono gli esponenti delle due fazioni, nondimeno ha fatto emergere l’indisponibilità degli attualisti a mantenersi, riflessivi ed evocativi, dentro il perimetro della propria generazione, laddove invece i passatisti non intendono penetrare nel campo delle generazioni successive, se non in forma di indizio o di reperto.

Amici attualisti, la nostra battaglia è la memoria. Lasciamo ai trentenni, tanto spesso invocati nelle nostre riunioni, la libertà di fare e di non fare, di avere successo e di fallire. Tutto quello che possiamo per loro sono i nostri ricordi e la serietà, non disgiunta dalla pietà, con cui dobbiamo raccontare le nostre storie. A noi non si addicono più le invettive e le requisitorie, neanche quando sublimate da una squisita sensibilità artistica; a noi si confanno i miti e le favole, dove certo non scarseggiano l’orrido e il crudele.

Questa è la mia opinione, e sinceramente mi scuso per la sua verbosità. Se fossi stato un grande poeta russo avrei saputo dirla così:

Onore ai compagni dell’avvenire!

Scavando nell’escremento pietrificato dell’oggi

Per scoprire le tenebre dei nostri giorni

Forse si chiederanno anche chi io sono stato!

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