NEI POVERI LO SPIRITO IN PUREZZA, DA PASOLINI A CARRÈRE di Pepi Burgio

Torino, 27 dicembre 1974. Nell'introduzione a La musica per film, raccolta di saggi sull'argomento scritti da Theodor W. Adorno e Hanns Eisler, Massimo Mila, grande musicologo torinese, dice qualcosa poco accoglibile. Secondo lui Pasolini ha usato nei suoi film, coerentemente con quanto prescritto da Adorno e Eisler, l'espediente retorico, “divenuto un luogo comune”, del contrappunto drammatico a rovescio, ovvero l'esasperazione della differenza tra il commento musicale e l'azione.

Pasolini, dice ancora Mila, vi ha fatto ricorso conformisticamente, ricorrendo “ai cori sublimi della passione secondo S. Matteo per le più squallide scene della miseria umana in Accattone o la Cavatina celestiale del Quartetto in la minore per i placidi coiti de Il fiore delle mille e una notte”.

Queste affermazioni, il loro tono liquidatorio, denotano più che una contingente messa in discussione di alcune scelte espressive del regista, una radicale incomprensione, una sostanziale estraneità, anagrafica oltre che estetica, di una parte consistente dell'intellettualità italiana dell'immediato dopoguerra nei confronti di Pasolini. Con alcune eccezioni, Fortini ad esempio – a cui Accattone piacque molto, fino a definirlo “stupendo, bellissimo, di una pulizia morale assoluta” –, che ha colto nella sineciosi una modalità strutturale della poetica pasoliniana. In alcune sequenze particolarmente violente di Accattone, la musica di Bach, dice Adelio Ferrero, “esplode altissima ed allontana la brutalità dei fatti riscattandone la sacralità della disperazione e del dolore”.

Nei film di Pasolini, lo “stile”, come lui lo definisce, o il “filmico”, come direbbe Roland Barthes, la rappresentazione pittorica, solenne, dei suoi personaggi, esige scelte musicali che esaltino il carattere epico-religioso della narrazione. Quindi Bach in Accattone, Vivaldi in Mamma Roma, Mozart, Webern e nuovamente Bach per Il Vangelo secondo Matteo, in coerenza con l’intrinseco carattere religioso della povertà.

Chi conosce anche superficialmente Pasolini non può che notare nel giudizio di Massimo Mila una certa, per così dire, disinvoltura interpretativa. “La mia visione del mondo – diceva Pasolini in una intervista a Bianco e Nero del 1964 – è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso; quindi anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica, e nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre stata, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali. Questo mio modo di vedere il mondo dei poveri, dei sottoproletari, risulta, credo, non soltanto dalla musica ma anche dallo stile stesso dei miei film. La musica è l'elemento diciamo di punta, l'elemento clamoroso, la veste quasi esteriore di un fatto stilistico più interno”.

In ultimo una suggestione, forse arbitraria forse no, ma comunque sincera, da Il Regno di Emmanuel Carrère: “Il giorno dopo è Pasqua. Cercheremo con i bambini le uova nascoste in giardino. Andremo a messa nella grande e bella abazia dove si ritrovano tutte le prolifiche famiglie cattoliche del paese, in blazer blu marino e abiti pastello. Ci andrò anch'io, non ci penso nemmeno a schivare l'appuntamento, ma questo cristianesimo borghese, provinciale e sicuro di sé, questo cristianesimo da farmacisti e notai, che pure ho imparato a guardare con indulgente ironia, a un tratto mi disgusta. All'alba scivolo fuori dal letto in cui mi sono girato e rigirato tutta la notte senza chiudere occhio accanto ad Anne che dormiva. Esco di casa senza svegliare nessuno. Prendo la strada che porta al convento delle suore dove spesso mia suocera assiste alle funzioni, perché si trova a due passi. Qualche volta l'accompagno. Alle sette recitano il mattutino. La cappella è grigia e brutta, la luce livida e le pareti di pietra grossa trasudano umidità normanna. Nel convento restano ormai solo una decina di suore, tutte vecchie e malconce. Una è nana. Cantano con voce tremante e stonata, ma non più del belato del giovane sacerdote con la faccia da scemo del paese che viene a portare loro la comunione. Letto da lui sembra stupido, orribile a dirsi, persino il grandioso racconto di san Giovanni su Maria Maddalena che il mattino di Pasqua scambia Cristo risorto per il giardiniere. Pare che nessuna di loro lo ascolti. Hanno sguardi velati da cupe fantasticherie, e fili di bava agli angoli della bocca: dev'essere la prospettiva della colazione. Come ammette quasi con allegria la mia devota suocera, la messa delle suore è uno strazio, è così triste da stringere il cuore, e semmai ci fossi capitato qualche tempo prima me la sarei data a gambe. Anne, che è cresciuta all'ombra di questo gerontocomio, trova che ci sia qualcosa di perverso nell'andare ad annusare l'odore di pannoloni e disinfettante. Ma io dico tra me: ecco, questo è il Regno. Tutto ciò che è debole, disprezzato, menomato, ed è la dimora di Cristo.”

 

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