È il 1990, a Palermo il mondo universitario è agitato dall'ennesimo movimento studentesco, quello della Pantera, occupazioni, assemblee, colli fasciati dalla kefiah, emozioni fuori ordinanza e mozioni d'ordine, eco di cose appassite al sole di un maggio ormai lontano. Studente fuori sede, arrivo una mattina in facoltà, per discutere col relatore alcuni aspetti della tesi di laurea. Da mesi non ci sono più lezioni né esami, sostituiti da liberi seminari, statici o peripatetici, in cui docenti e studenti tentano, estemporaneamente, di ridurre tra di loro le distanze, che a Giurisprudenza, contrariamente che a Lettere, ancora esistono e marcate. All'ingresso del chiostro della storica sede di via Maqueda, mi colpisce un avviso affisso alla bacheca, a un tempo sinistro e ingenuo. I capi del movimento invitano tutti gli studenti democratici a vigilare, perché sono venuti a conoscenza del fatto che le forze dell'ordine hanno infiltrato degli agenti all'interno della facoltà occupata. Gli stessi, viene spiegato, sono facilmente riconoscibili dal taglio dei capelli, portati molto corti, alla maniera dei militari. Fatico a credere che quel grottesco documento sia l'effettivo risultato di un'attività di controspionaggio condotta da futuri giuristi. Penso ad una pasquinata o ad un esaltato fuori controllo. Ma un'inquietudine rimane. Penso a Bachelet, a Ruffilli, gli anni Ottanta, in fondo, non sono affatto lontani. Poi mi distraggo. Ecco il mio professore, saggio, ironico, sapiente. Parliamo qui, mi dice, che c'è un bel sole e non mi va di chiudermi in dipartimento. E per una buona mezzora lo tedio, passeggiando, con le mie futili intuizioni sulla vera natura del delitto preterintenzionale.