SAN CALOGERO TRA FESTA E RIBELLIONE di Vincenzo Campo

Da borghese non sono e non sono mai stato devoto di San Calogero, e però da agrigentino sono più che interessato a lui, alla sua storia, alla sua festa e vorrei che tutti quanti riflettessimo di più su questo nostro pezzo di vita.  Mi piacerebbe avere la capacità di saper evocare con le parole quelli che sono i colori, i rumori, i frastuoni e perfino gli odori di quella che passa come una festa, ma che in realtà festa non è; non ho la minima capacità in questo senso e dovrete cercare di sforzarvi a rivedere quello che nelle prime due domeniche di luglio succede ad Agrigento, quelli fra voi che una volta nella vita avete avuto il

privilegio di vederlo.

Non è festa: la festa è prima, durante e dopo; ai suoi margini, fra i palloncini colorati, la festa è –o era?- la càlia e la simenza, il tamburino, la paglietta, le baracche alla Passeggiata fino all’emiciclo Cavour e ora anche al campo sportivo. La festa è –o era?, non so decidermi sul presente e l’imperfetto- durante tutte le sere di queste due settimane, quando vestiti per bene, di festa appunto, a braccetto la moglie e davanti, dietro e accanto due o tre vastasoni di figli che saltellano, scalciano e gridano l’incontenibile felicità di girare in mezzo a migliaia di giocattoli. La festa è quando, sussiegosi, si sputava lontano il guscio della simenza tenuta nel coppo di carta con la mano destra in modo che anche la signora potesse prenderne, e si salutava con un cenno di capo il cavaliere Russo che veniva incontro. Festa era quando, incapaci di contenere la gioia, fra la folla e il rumore assordante delle giostre e dei giostrai, si stringeva a se quel tale compare Caluzzo o il Pino Giovanni che, emigrati a Dusseldorf, non si vedevano dall’anno prima. Festa sono i fuochi d’artificio, festa sono le luminarie per le strade, festa è l’aria che si respira in queste due settimane.

Ma quello che ai più pare festa, quella processione che processione non è, il lancio del pane, le scalate del santo, e i baci, le carezze, l’asciugargli il sudore, il suonare incessante di Zingarella, lo spingersi e fare a gara per portare a spalla la bara, il sudare, il faticare, il gridare, l’imprecare e perfino il bestemmiare –che quando ci vuole ci vuole–, tutto questo non è festa.

Che festa è mai quella che vede –o vedeva- le donne andare ‘n piduni su pavimentazioni arroventate dal sole di luglio per rendere omaggio al santo per la grazia fatta o da fare!

Che festa è mai la sofferenza di una giornata intera! è gioia, se vogliamo, è la gioia d’impossessarsi del proprio santo e della città, è la felicità di chi ha l’impressione, per un giorno, per una volta, d’avere vinto e d’essere padrone dei quartieri nei quali, da inquilini e non da padroni, tutto il resto dell’anno si è vissuto e si continuerà a vivere.

La mattina, coi muli e i carretti parati a festa, con le mantiglie e i pennacchi, nel trionfo dei rossi e dei gialli e degli ori dei paramenti e dei decori, preceduti dai tamburini che fanno, ve lo ricordate, brebbiti-brebbiti-sancalò, in processione composta e ordinata il popolo attraversa la città dall’Addolorata a San Calò nella direzione contraria a quella che di lì a poco ripercorrerà e di tanto in tanto si ferma per un osanna al Santo, un “Viva San Calò” forte e corale, ché tuta la città sappia e veda che stanno portando le offerte al Santo: fascine di frumento infiocchettate con nastri rossi e colorati, pani nei cesti ed ex-voto per grazia ricevuta.

E poi il santo, ricevute le offerte che affida al Rettore, esce dalla sua chiesa, che non è neppure parrocchia, come parrocchia non è l’Addolorata da dove il popolo arriva e dove, di lì a poco, col suo popolo andrà; esce: il santo esce, va verso la città per percorrerla tutta, lui avanti e tutto il suo popolo dietro. Imperturbabile, serafico e incurante di tutto quanto accade intorno a lui, lo sguardo fisso sul suo libro che non perde il filo della lettura nonostante il frastuono di Zingarella, le urla incessanti e pure le liti che, per la fatica, il caldo, e la birra che s’è bevuta per calmare l’una e spegnere l’altro, pure succedono in questa indescrivibile kermesse... in tutto questo arriva a Porta di Ponte e si gira all’indietro verso San Vito dove saluta quelli che ‘nchiusi non hamnno potuto essere lì a far folla..... e quando, presa la volata e fatta una curva di novanta gradi che fa temere per l’incolumità di tutti, sale di corsa per le vie Porcello, Gamez e Foderà fino alla strettoia che porta a “Bata Granni” –chi se lo ricorda più che Santo Spirito si chiamava Bata granni, Abbadia Grande che grande era in assoluto e in confronto alla vicinissima Badiola! -.

Il santo esce, va, si gira all’indietro, prende la ricorsa, sale, s’nfila: il santo è il soggetto, colui che agisce, non i portatori, non il popolo che sta dietro, che non è in processione, ma segue disordinatamente il santo dove egli va.

Santo indisciplinato e scomposto, nero e diverso, in confronto a chi in realtà lo ha vinto e soppiantato, che è san Gerlando.

Non si può capire Calogero se non si sa di Gerlando; “oriundo della Germania” significa il suo nome, e la sua storia è quella del restauratore, di chi, da lontano, è venuto a riportare l’ordine della Chiesa e dell’Impero nel disordine dei neri musulmani, berberi che erano ad Agrigento.

Santo composto e silenzioso che nel freddo di febbraio passa senza che nessuno se n’accorga; né ora, né quarant’anni fa quando i santi erano più venerati e rispettati. Santo e Vescovo, non monaco o eremita; biondo e ariano, non bizantino.

Ma il popolo che qui non è biondo e non è ariano, col suo capopopolo, due volte l’anno, per due domeniche consecutive simula un rivolta, una ribellione per la quale finge d’impossessarsi della città, per poi restituirla, sconfitto, alle autorità gerlandiane che con una processione seria, orante e composta riporta il simulacro del santo, non certo il santo della mattina, nella Rettoria dove deve restare.

Non è che la rappresentazione dell’altalenarsi delle ribellioni, delle sconfitte e delle rassegnazioni di un popolo intero e non solo agrigentino, ma siciliano. Questo e non altro è il senso della ribellione che scoppiò al seguito del sindaco Piazza che da Governo si fece popolo e incurante degli ordini e della parola data tornò nel popolo dal quale veniva e montò sul Santo. Il lunedì successivo si va al mare e chi può ci resta per tutta la rimanente stagione. Si torna alle ordinarie occupazioni. La città è stata restituita a Gerlando.

 

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