Tanti anni fa Torino era stata una sorpresa. Immaginavo la città della Fiat, della classe operaia, degli immigrati, una città grigia e dura, ma in quella mezza giornata uscendo da Porta Nuova avevo visto attorno a me la città sabauda, le piazze, i giardini, i monumenti, i viali e i portici, i negozi eleganti, e poi il lungo Po e di fronte le colline dove si avventuravano di notte i personaggi di Pavese.
Racconta Angela che nel 1884 Paul Gauguin fuggì da Copenaghen (e dalla famiglia, dal decoro borghese, dalle sue ombre lunghe) per tornare a Parigi. Poi cercherà il sud e la luce, (a Pont Aven tre anni dopo non dipingerà più le ombre), la inseguirà ad Arles e infine imbarcandosi di nuovo verso le isole del Pacifico.
Angela vive da trenta anni in Danimarca e conosce bene il paese.
Julian ricorda volentieri come se la passava bene in Romania quando c’era il comunismo. Allora lavorava come comparsa nell’operetta e venivano tutti pagati dallo Stato. Era bene allora, dice. C' era bello.
Poi, quando il regime di Ceausescu è stato rovesciato, ha perso il lavoro perché con i soli incassi della biglietteria gli attori non ce la facevano. Ha seguito un corso di meccanica leggera, poi ha lavorato con una macelleria privata, un giro di maiali con i rom ma nessuno e niente era in regola, rischiavano la prigione e avevano dovuto chiudere. La brusca transizione all’economia di mercato lo ha sbalestrato ai margini della società e poi fuori dal paese come tanti altri rumeni.
Una decina di anni fa i tammurinara che accompagnavano la processione di san Calò venivano da Porto Empedocle e tutto andava bene. Poi ci fu un incidente. Una lite con alcuni portatori, un tamburo sfondato sulla testa di un suonatore, e il magnifico gruppo dei percussionisti empedoclini non si fece più vedere. Con una felice eccezione. Qualche anno dopo l’incidente per la tammurriata più importante e attesa, quella conclusiva al rientro in chiesa a mezzanotte del santo nero, venne invitato il bravissimo ‘capo’ dei tammurinara di Porto Empedocle. Grandi applausi, emozionati abbracci alla fine, ma gli empedoclini non sono più tornati. Chi li vuole ascoltare deve andare a settembre alla Marina, per quel san Calò fuori stagione.
L'operazione del fotografare è un sottrarre, un togliere, come per gli scultori. Come quella di un sarto che ritaglia nel tessuto della sua esperienza visiva, mai identica a se stessa, incessantemente variata nello sguardo.
Questo è vero per ogni singolo scatto, ma lo è anche per il fondamento del gesto fotografico che è poi la libertà, la scelta del fotografo di inclusione-esclusione fra ciò che vede. Alla fine un reportage, almeno nella memoria del fotografo, è attraversato dalle assenze, dalle esclusioni, quegli scatti che si è deciso di non fare, a volte sbagliando si capisce: ma questo lo si pensa sempre dopo.
Nel 2004 ho fotografato in Perù per più di un mese. Da Lima a Cajamarca, Celendine, Tarapoto, Lamas, Iquitos. E poi Cuzco, Arequipa. Autobus sgangherati, battelli dove si dormiva sulle amache, taxi che sfrecciavano all’alba nella foresta per i frequenti agguati. Città, villaggi, fiumi, laghi, montagne. Contesti diversi, incontri, spaesamenti. A volte semplicemente la luce era una sorpresa. E diffuse, disperse fra processioni, petardi e sonnolenza, le tracce della violenza.
La nebbia è un fenomeno atmosferico insolito da queste parti oltreché una facile, abusata metafora. Il suo malinconico velare allude al non visto, a volte maliziosamente anche a chi non vuol far vedere. Anche la pioggia è ormai diventata ad Agrigento un fenomeno atmosferico raro, ma la sua funzionalità metaforica è meno evidente ed è un segno dei tempi se può essere associata ad una specie di allegra frenesia, a una tarantella di Cannavacciuolo. Come un adagio di Vivaldi alla nebbia.
Del Marocco in Europa si ha quasi sempre un’immagine stereotipata, paese di magnifiche medine e brutte periferie, di traffici di hashish, di migranti, di oasi e casbeh berbere. Ma il Marocco è oggi anche un paese dall’intensa vita artistica, dove sono possibili esperienze, come quella di Mustapha Romli impensabili in Europa.
Viaggiando da Essaouira a Chefchaouen si attraversano circa 700 chilometri. Stradine di montagna, strade nazionali, autostrade, villaggi a mare, paesaggi desertici e fiumi fra valli verdeggianti, le periferie di Safi, Rabat e Casablanca, Tetouan andalusa, e infine Chaouen, con la sua medina fiabesca.
I tamburi annunciano in questi giorni l'approssimarsi della processione di san Calò e con la processione tornano le preoccupazioni, i timori, i ricorrenti propositi di normalizzarla.