LA FOTO NON VISTA DEL PERU' VIOLENTO di Tano Siracusa

L'operazione del fotografare è un sottrarre, un togliere, come per gli scultori. Come quella di un sarto che ritaglia nel tessuto della sua esperienza visiva, mai identica a se stessa, incessantemente variata nello sguardo.  
Questo è vero per ogni singolo scatto, ma lo è anche per il fondamento del gesto fotografico che è poi la  libertà, la scelta del fotografo di inclusione-esclusione fra ciò che vede. Alla fine un reportage, almeno nella memoria del fotografo, è attraversato dalle assenze, dalle esclusioni, quegli scatti che si è deciso di non fare, a volte  sbagliando si capisce: ma questo lo si pensa sempre dopo. 
  
Nel 2004 ho fotografato in Perù per più di un mese. Da Lima a Cajamarca, Celendine, Tarapoto, Lamas, Iquitos. E poi Cuzco, Arequipa. Autobus sgangherati, battelli dove si dormiva sulle amache, taxi che sfrecciavano all’alba nella foresta per i frequenti agguati. Città, villaggi, fiumi, laghi, montagne. Contesti diversi, incontri, spaesamenti. A volte semplicemente la luce era una sorpresa. E diffuse, disperse fra processioni, petardi e sonnolenza, le tracce della violenza.

Il degrado di Belèm, diecimila abitanti insediatisi alla periferia di Iquitos, lungo un fiume nella foresta amazzonica, dove avevano ricostruito le loro palafitte come nei villaggi e non pagavano le tasse, non avevano perciò servizi dal Comune e l’insicurezza veniva segnalata esplicitamente dalla polizia in borghese per strada. Una donna che su una panchina di Cuzco raccontava piangendo della sua famiglia sterminata venti anni prima da quelli di Sendero Luminoso. Un circo tristissimo con l’uomo più alto del mondo e un pittore di strada italiano che raccontava del tentativo di rapimento di suo nipote, lì, a Barranco, fra le ville liberty e i palazzi della nuova borghesia di Lima che troneggiano sull’oceano grigio. Lo spacciatore di marjuana che ci teneva a far sapere che era boliviano, una garanzia. E i tentativi di scippo fra la la folla delle fiestas, i manichini come spettri dietro le vetrine; la violenza c’era nella paranoia di alcuni, nella paura di tanti, nei linciaggi frequenti di cui la stampa e le tv non parlavano.
 
Fotografavo quello che vedevo, quello che volevo e potevo. Perciò una mattina, a Tarapoto, quando sulla strada che portava allo zocalo della  città è apparso il corteo dei risciò preceduto da un uomo insanguinato - un calvario, un linciaggio - non ho fotografato, non ho neppure seguito il corteo.
Sbagliando, bloccato dalla certezza che se avessi fotografato avrei esercitato un’ulteriore violenza su quel disgraziato. Vero, ma sapevo anche che i linciaggi incontravano il consenso di molti, venivano tollerati dalla polizia e ignorati dall’informazione come tutto ciò di cui un po’ ci si vergogna. E far vedere ciò di cui il potere (che non è solo quello dello Stato) si vergogna è una delle buone cose che i fotografi possono fare.
 
Ho poi saputo che quell’uomo era stato sorpreso in una farmacia a rubare un computer e che giunti allo zocalo non lo avevano ucciso. 
Adesso quella immagine, quella fotografia non scattata, è un’assenza che falsifica l’intero  reportage: è assente non la violenza che c’era in quegli anni nel paese, la ‘verità’, ma quella che avevo visto, che avevo incontrato, almeno in una delle sue manifestazioni più brutali e condivise. 
Quella  violenza che riempie le pagine di tanti scrittori peruviani, anche molto diversi fra loro come Vargas Llosa e Manuel Scorza.
 
Invenzione e verità, rappresentazione e falsificazione: a volte inventando si può raccontare la verità  meglio che attraverso quei puntiformi e discontinui calchi visivi del passato che sono le fotografie di un reportage, la cui inevitabile parzialità analitica difficilmente può essere compensata dall’efficacia della sintesi. Mancherà sempre qualcosa, per l’inesauribile ricchezza della realtà, delle sue sfumature, e questo il fotografo lo sa, anche il più ’totale’ dei fotografi come Salgado. Ma se manca una fotografia importante, se quella finestra che si era aperta appare chiusa, proprio quella immagine possibile ed esclusa invalida la verità delle altre, la corrode. Soltanto il fotografo lo sa, non chi guarderà il suo reportage. Soltanto lui sa di avere fallito.