I POVERI A TORINO di Tano Siracusa
Tanti anni fa Torino era stata una sorpresa. Immaginavo la città della Fiat, della classe operaia, degli immigrati, una città grigia e dura, ma in quella mezza giornata uscendo da Porta Nuova avevo visto attorno a me la città sabauda, le piazze, i giardini, i monumenti, i viali e i portici, i negozi eleganti, e poi il lungo Po e di fronte le colline dove si avventuravano di notte i personaggi di Pavese.
Le poche altre volte che vi sono tornato e sempre di passaggio si aggiungeva la consapevolezza che l’altra Torino era a pochi chilometri, in periferia, nella cintura operaia dove non ero mai stato e dove il PCI vinceva.
Questa volta sono tornato sapendo che Fassino ha perso in periferia e con l’intenzione di osservare dall’interno il rapporto fra la periferia e il centro, fra la città scenografica dei Savoia e quella dell’austero razionalismo della Fiat.
Mi è sembrato innanzitutto che le due città non siano poi così separate. L’avvento dell’automobile, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha modificato profondamente l’assetto viario, asfaltando e destinando al flusso motorizzato su gomma gran parte della superficie sempre molto vasta - viali larghi a volte come piazze - che un secolo fa doveva essere pavimentata e percorsa da carrozze e tram.
Mc Luhan, già negli anni ’60, constatava che le automobili ‘fanno sparire’ le città. Il centro, la Torino dei Savoja, solenne, fastosa, elegante, la città dei caffè e dei teatri - oggi anche dei cinema - di una grande borghesia laica e colta, o quella popolare del grande mercato di Piazza della Repubblica, di Porta Palazzo, è un centro attraversato, innervato dall’asfalto e dalle automobili, che arrivano a circondare Piazza Castello.
Ci sono anche indicatori indiretti della pervasività della città dell’automobile sulla città premoderna: Torino è fra le città più inquinate d’Europa.
E basta attraversare il primo isolato lasciandosi alle spalle il Lingotto per trovarsi dall’altra parte, in un paesaggio urbano disegnato dalla razionalità economica del capitalismo, severa, senza orpelli, e di un capitalismo come quello italiano in cui la Fiat non ha soltanto condizionato il paesaggio della capitale sabauda ma dell’intero paese, dentro e fra i centri abitati.
Non stupisce che i senza tetto a Torino stazionino al centro della città, sotto i portici, che si diradino con il diradarsi del centro. Stupisce che ce ne siano così tanti.
Domenica sera in una ampia galleria fra piazza san Carlo e piazza Castello fra una folla densa e frusciante che ondeggiava al tempo delle musiche natalizie, sotto un’illuminazione sfarzosa, colorata, che si aggiungeva alle vetrine sfavillanti dei negozi, proprio ai piedi di un lunare manichino, qualcuno dormiva sotto un paio di grosse coperte. Nessuno ci faceva caso.
Ce ne sono ad ogni angolo. Molti sono vecchi, evidentemente soli. Se il Comune, la Chiesa, il volontariato fanno qualcosa, non è sicuramente abbastanza. Nessuno fra i politici ne parla, neppure i grillini che hanno chiuso la campagna referendaria proprio a piazza san Carlo.
I senza tetto non vengono cacciati, vengono ignorati, come se non fossero visibili, come se non ci fossero. E non si capisce se quel non vedere sia frutto di cinismo o di pietà, perché dopotutto sotto i portici o in galleria non ci piove. Lussi sconosciuti alla periferie. E infatti gli ultimi, ‘i vinti’, gli invisibili, non stanno in periferia, stanno in centro, dove le automobili arrivano, ma filtrate, ci sono gli spazi pedonali e dove qualcuno ogni tanto lascia cadere una moneta, come per caso. In fondo un panino costa quattro euro.