Il clic del fotografo è come una puntura di spillo, diceva più o meno Cartier Bresson. La sua era una reticente ammissione di colpevolezza, raramente dichiarata dai fotografi.
Bufalino avvertiva attorno alla camera oscura odore di zolfo, confermando la cattiva reputazione dei fotografi, associati spesso ai ladri o addirittura ai killer, o a meno luciferini ma altrettanto biasimevoli profittatori, estetizzanti le disgrazie altrui, a volte anche solo quella di avere un certo volto, una particolare espressione.
Quel senso di colpa del fotografo, consapevole o rimosso, rimanda alla costitutiva infedeltà della ripresa fotografica, a quel mimetismo che aveva sbalordito il pubblico per quaranta anni e che l’invenzione del cinema, della ‘fotografia in movimento’, aveva poi rivelato nella sua astrattezza e irrealtà.
Nell’immagine fotografica infatti il tempo è assente. Immersi nello spaziotempo, l’astrazione spaziale ci appare, come nella pittura, fondamentalmente artificiale, linguistica.