Il nostro archivio di voci differenti raccoglie, oggi, la storia di un giovane africano, disputata al silenzio dalla sensibilità di un nuovo collaboratore. Se i “compagni dell’avvenire” si chiederanno chi è stato Mouktar Kante, forse saranno severi con noi. A quei posteri che immaginiamo uomini giusti chiediamo indulgenza: fummo archivisti, non altro. G.V.
Quando sono stato invitato a partecipare alla presentazione del il numero di Segno ora in distribuzione, avevo pensato di svolgere alcune mie considerazioni sulla Riforma protestante che ritenevo e che ritengo connesse a cose dette in occasione della presentazione del numero precedente; considerazioni che, dal mio punto di vista, valevano a sostenere le ragioni della continuazione della pubblicazione della Rivista.
Da questo luogo si parte. In questo luogo si arriva. Un’evidenza predicabile di ogni punto geografico sulla faccia della terra assume oggi, ad Agrigento, un carattere paradossale: ad arrivare è il surplus demografico (così si esprimono i sociologi) delle società proletarie del sud del mondo, uomini e donne che a mettersi per terra e per mare nulla hanno da perdere, fuorché la vita; a partire è la riserva strategica di una società sterile, dissipatrice di giovani vite, fondata sui sussidi e gli assegni di quiescenza. L’umanità che arriva sosta per un tempo vuoto, e quasi sempre riparte.
Sto in bilico fra attualismo e passatismo, forse; non mi sento ancora un reduce –reduce di che, poi? Non della Campagna d’Africa e neppure della Guerra di Crimea, naturalmente, ma neppure delle barricate e degli scontri ideologici e anche fisici del mio sessantotto; perché per essere reduci bisogna che l’impresa alla quale s’è partecipato sia finita e la mia non è affatto finita, ho la pretesa di pensare che continui ancora e che non s’arresti; e tuttavia, non reduce, sono consapevole di non avere un futuro lontano davanti a me, ma solo prossimo e vicino.
C’è un dibattito nella chiesa palermitana in cui si discute della vita della gente, delle famiglie, dei giovani. Un dibattito non poco opportuno cui è quasi un dovere partecipare. Se il dialogo e il confronto diventano cultura nella Chiesa, anche la città si farà più ricca e solidale.
Le parole hanno da sempre commentato le immagini, che tuttavia da sempre si sottraggono alle parole. Da circa cento anni, da quando qualcuno espose un orinatoio e venne preso sul serio, innumerevoli parole di teorici, filosofi, critici, hanno sostenuto le fortune di artisti senza talento, di pittori che non sapevano dipingere nè tanto meno disegnare, di autori di 'trovate', di 'provocazioni', come se nel secolo delle due guerre mondiali, dei totalitarismi, della 'morte di Dio' in Occidente, un artista potesse ancora provocare, magari sbudellando un animale in una galleria d'arte o esponendo le sue feci (poco importa se dell'animale o sue).
Carissimi amici, sento di dovere intervenire nella discussione avviata dallo scritto di Giandomenico con poche sincere considerazioni. Il tempo della nostra ventura terrena declina. Finalmente possiamo guardare al presente, e maggiormente al futuro, con il distacco e la lucidità di chi non ha più nulla da sperare o pretendere dal suo tempo, né la velleità di migliorarlo o esserne migliore. Non si tratta di riconoscersi protagonisti del proprio tempo, o testimoni di un tempo in cui lo fummo, bensì e soltanto di capire chi o cosa siamo diventati nel frattempo, e se questo scorcio di mondo in cui ci è dato consumare il nostro commiato ci coinvolga e sospinga ad un qualche dovere di presenza, ovvero ci respinga in una deliberata e, per molti versi, spensierata assenza. Per quanto mi concerne, la mia parte in questo finale di partita è quella dello spettatore, niente di più. Spettatore inorridito, depresso, allarmato, incredulo, sdegnato, insofferente, rassegnato, e per legittima difesa sempre più indifferente e sordo.
Parlare di pace in un momento storico nel quale anche il termine “guerra”, e la percezione a questo correlata, ha subito delle metamorfosi che ne decentrano il significato verso slittamenti interpretativi che confondono più che orientare e smentiscono la verità più che mostrarla, significa centrare il fatto della violenza diffusa che ancora regna in mutevoli e svariate forme, in quasi tutte le aree del pianeta.
Andando in piazza dal ridotto di via Saponara, scivolando lungo la via Bac Bac, poco dopo l'Ecce Homo, imboccando via Atenea, si incontrava il circolo dei Combattenti e Reduci.
I soci erano più spesso fuori che dentro, seduti accanto al bar Pedalino a guardare lo struscio della via Maestra, in attesa di qualcuno cui narrare l'epopea della guerra da poco conclusa.
Hegel diceva che nessuno può elevare il proprio punto di vista al di sopra del proprio tempo, ma anche quando non si è più giovani restiamo nel nostro tempo e talvolta qualche invettiva. anche se non ci si addice, forse merita di essere detta proprio perché il nostro stesso tempo ci spinge a farlo.