IO MOUKTAR KANTE, SIGNOR NESSUNO di Alessandro Tedesco*

Il nostro archivio di voci differenti raccoglie, oggi, la storia di un giovane africano, disputata al silenzio dalla sensibilità di un nuovo collaboratore. Se i “compagni dell’avvenire” si chiederanno chi è stato Mouktar Kante, forse saranno severi con noi. A quei posteri che immaginiamo uomini giusti chiediamo indulgenza: fummo archivisti, non altro. G.V.

Aspetto i documenti. Due anni, ancora nulla. Ogni giorno, da due anni, aspetto. Mi sveglio tardi la mattina solo per rimandare l'attesa, sto a contemplare il nulla, perché nulla è la mia condizione. Nel mio paese ero Mouktar Kante, qui sono un nome qualsiasi, nato in un giorno qualsiasi, di un anno a caso scelto dagli operatori che mi hanno assistito allo sbarco. 

Boum Kunda, sulla riva sinistra del fiume Gambia, nella regione di Basse, un crocevia di persone, di etnie, di lingue: fula, wolof, mandinga, serer, francese, inglese, arabo, treni, autobus, camion, barche, gente in bici, a piedi che trasporta la sua mercanzia per portarla ai depositi regionali, al mercato. Sono cresciuto in un villaggio di capanne sulla sponda del fiume. Due, forse trecento persone che non conoscono né notte né giorno ma solo lo scorrere incessante della vita.

Ho 18 anni, almeno mi pare di sì.

Mi ricordo che quando sono partito ne avevo sedici, ora, qui, in Italia, dovrei essere maggiorenne. Non ho fatto la scuola, non ci sono andato, sono "analfabeta", hanno scritto così appena arrivato a Lampedusa.

Però a due anni ogni mattina mio padre mi svegliava alle cinque e mi portava in una casa, grande, con le mura di cemento, tra il fango e la polvere e vene che ricamavano il selciato in cui si trascinava una poltiglia che nutriva gli orti del villaggio. Era la daara, la scuola coranica, eravamo in tanti, stavo lì e il karamoko ci faceva ripetere le āyāt, per ore e ore, finché non mi veniva a riprendere mia mamma e con lei andavamo al fiume dove lavava i panni per le altre famiglie, e lì sul fiume giocavo, torchiavo e calpestavo le robe nel limo.

Ma altri giorni non leggevamo il Corano e col karamoko, insieme agli altri talibè, andavamo nella città di Dampha Kunda, nel grande mercato, un piccolo esercito, un branco sciolto. La grande città era una favola, piena di colori, di gente e rumori e cose e animali e noi lì a girare correre con un barattolo in mano recitando “Allāhu lā ilāha illā Huwa, al-Ḥayyu al-Qayyūmu lā taʾkhudhuhu sinatun wa lā nawm”, un soldo per mangiare…

E la sera aspettavamo mio padre, noi intorno al fuoco mangiavamo le provviste che lui era riuscito a scambiare al mercato con il latte che mungeva dalle poche mucche che avevamo, e ascoltavamo le storie. Storie di suo cugino a Banjul, oppositore del governo di Yahya Jammeh, storie cattive, di violenza, di gente che muore, di gente che scappa.

Non andavo più alla daara, la mattina presto con gli amici ci tuffavamo nel fiume, facevamo le gare di resistenza sott'acqua e a chi riusciva a portare su più pietre. Poi badavo un po' agli animali. Mi piaceva stare con loro, erano divertenti, non come gli amici, ma mi facevano compagnia, le portavo in giro, e pure al fiume, anche se non sapevano tuffarsi nell'acqua.

Nel periodo di secca riuscivo anche a percorre quaranta chilometri al giorno, mio padre mi aveva affidato le mucche, le più preziose, e io le portavo al pascolo, là dove c’era il verde. Lui restava in città, aveva iniziato a lavorare in città, costruiva case: andava la mattina, dopo che avevamo munto quegli ossuti quadrupedi, presto, con la moto, caricandosi dietro le grandi boly piene di latte. Attraversavo tanti piccoli villaggi, e nell’oasi verde ci incontravamo in tanti, giocavamo a calcio, nel greto del fiume asciutto, le porte con le canne, le linee laterali e dell’area di rigore con le pietre bianche, il pallone una pezza bagnata fatta asciugare al sole e legata con una corda. Alla fine Lamin tirava fuori la cora a ventuno corde e come un vecchio griot ci cantava storie d’amore, storie antiche, storie di guerra e pace che noi conoscevamo tutte ma sempre restavamo incantati ad ascoltare.

La mia vita, iniziava ad avere altri confini, altri amici, vedevo il Senegal, vedevo i camion che venivano a fare il carico a Basse e poi tornare per rivendere la merce molto più cara nel paese confinante, che ci ospita…

Così mio padre anche, scambiò il latte col cemento e iniziammo a commerciare, una volta al mese, dalla fabbrica di cemento di Banjul a TambaKunda in Senegal.

Accompagnavo mio padre su un camion che noleggiava, andavamo nella capitale a caricare il cemento, in quella fabbrica, con ciminiere altissime, da cui usciva un fumo denso e nero e su cui era disegnata quella spirale che spesso trovo sulle pietre rotte al fiume, e impresse le scritte 

GACEM   I T A L C E M E N T I   G R O U P

Stanotte ho fatto un sogno: una strada tra le macerie, sembra la periferia di Banjul. Una fila di uomini strisciano nel fango, non hanno colore, si trascinano nudi come vermi. La mia prospettiva è dall'alto, da dietro, schiacciato su di loro. Strisciano, avanzano l'uno con l'altro trascinandosi esanimi. L'aria è piena di polvere, rarefatta, sembra che sia appena successa l'apocalisse. Nessuno geme. Procedono in silenzio non si sa verso dove, forse verso la fine della loro condizione. L'uomo che i miei occhi seguono, l'ultimo della lunga colonna, ha i capelli lunghi, dei bei capelli, un bel corpo, perfetto, una schiena perfetta dei glutei perfetti, se non fosse che i loro intestini e le loro budella, le interiora, rimosse ad esterne appendici, seguono il loro strazio. 

L’uomo dai capelli argento si ferma, quello davanti a lui si gira, anch'esso corpo perfetto ma martoriato, calvo, lo guarda, gli afferra un pezzo di carne e lo prende a morsi, si ciba, si nutre. Squarcia le budella a morsi e infila la testa e grida a squarciagola.

Ecco, ora sono qui, su questo letto, con le coperte fin su la testa e gli occhi aperti, vedo Mariama, a Dakar, nella sua classe, studia, vuole fare la dottoressa. Io volevo sposarla, è bella, bellissima. Ma era per il mio bene, e anche, forse, per il suo, "dove vuoi che faccia l'università, dove vuoi fare vivere in pace i tuoi figli?". Mio padre, ha comprato il "viaggio", mi ha accompagnato all'autobus per il Mali e Burkina Faso e Niger e Libia, e poi, un biglietto in seconda classe, sottocoperta, per l’Italia. Avevo sedici anni, mi ricordo, ed io non volevo, non volevo lasciare tutto, non volevo perdere tutto, mamma, e Dara, Chinelo, Lamin, Omar, la palla di pezza, il fiume, le mucche, non volevo, quello era il mio janna, e forse, qui, è qui il jahannam.

Io Mouktar Kante, in attesa di documenti, Signor Nessuno. 

*Alessandro Tedesco lavora con i richiedenti asilo e ne ascolta le storie.

categorie: