PER UN FIGLIO di Tano Siracusa
L’inferno sono gli altri, sosteneva Sartre, quando non aveva ancora incrociato le rotte di un umanesimo marxista che, come un fiume carsico, scorreva sotto la crosta del marxismo ufficiale.
L'inferno: l’altro, la sua soggettività che fin dallo sguardo disgrega e nega la mia soggettività.
Fa pensare al filosofo francese il film di Spranga Deshapriya Katugambala, ’Per un figlio’, a Sartre e al neorealismo, al ribaltamento di prospettive e gerarchie, di orizzonti culturali, avvenuto in questo mezzo secolo.
L’inferno è il silenzio degli altri, sembra sostenere il regista dello Sri Lanka, che ha 28 anni e da venti vive in Italia.
L'inferno: l’altro che negando le parole, attua una strategia di annientamento della mia soggettività.
Non sono questi i riferimenti culturali e cinematografici del giovane regista: ‘I miei riferimenti iniziano da Bresson a arrivano a Ozu e ai Dardenne. Il cinema deve avere un'impronta sociale. 'Per un figlio' è un film orgogliosamente clandestino, spesso girato anche senza permessi, nato dall'urgenza di raccontare ’.
E fra gli italiani cita Bellocchio, ‘I pugni in tasca’.
E tuttavia l’attrito fra quel mondo e l’attuale ha una sua utilità, può produrre senso.
‘Per un figlio’ non racconta una storia, perché il tempo vi ha assunto una una forma rotatoria, circolare, dove tutto ritorna, il monolocale angusto, claustrofobico, che Sunita, la madre dello Sri Lanka, badante, ha affittato per il figlio adolescente che l’ha raggiunta in Italia; ritornano le loro cene silenziose, le scorribande del ragazzo con i suoi quattro amici in una boscaglia priva di mistero, le strade deserte di un un piccolo centro del nord Italia, i lamenti della vecchia che Sunita assiste combattuta fra il disgusto e la pietà.
Non c’è storia sicuramente per lei, che dorme quando il figlio per la prima volta l’accarezza. Un varco verso il riconoscimento, verso la resurrezione della madre, che subito si chiude. Nell’ultima sequenza del film Sunita e il figlio cenano assieme, lui sempre senza sguardi né parole.
E appare proprio in questo orizzonte chiuso alla storia il ribaltamento di quel quadro culturale, dei suoi paradigmi.
Come per il Sartre degli anni ’50 anche per il cinema italiano di periodo l’orizzonte della storia sembrava aperto, come sempre dopo le catastrofi belliche. E nella storia collettiva anche quella degli individui, che nella miseria, nello sbando, nella solitudine, riconoscevano e si riconoscevano negli altri.
‘Per un figlio’ percorre con diversi stilemi (alcune riprese di spalla, in movimento, del ragazzo fanno pensare a Xavier Dolan) lo stesso luogo di confine fra il film di finzione e il documentario praticato dai maestri italiani del neorealismo. Gli attori sono talmente credibili da far pensare che non stiano fingendo, che non stiano recitando. Coerente con l’ispirazione ‘realista’ la scelta del dialetto usato dalla vecchia inferma e spesso dai ragazzi.
Se il ‘docufilm’ costituisce ormai un genere e può essere letto come una ripresa e attualizzazione del canone neorealista, il lungometraggio di Katugambala sembra collocarsi in questo solco con una cifra estrema di rigore e coerenza.
Film militante del giovane regista, che sembra negare l’ovvietà dell’integrazione e rimanere perplesso davanti al suo rifiuto, alla replica identitaria. Ma un film anche sulla solitudine come orizzonte epocale, sul silenzio e la mancanza di parole, il contrario della chiacchiera che cementa il piccolo branco di adolescenti, il linguaggio isterico e muto dei corpi, dei gesti.