LUTERANI, A LORO INSAPUTA, AD AGRIGENTO di Pepi Burgio

A Mario Perniola, scomparso da qualche anno, si devono diverse opere importanti con cui il filosofo, docente di Estetica prima a Salerno e successivamente a Roma Tor Vergata, ha dato un contributo notevole alla riflessione filosofica degli ultimi decenni.

A lui si deve fra l’altro un saggio pubblicato nel 2001, Del sentire cattolico. La forma culturale di una religione universale. Di straordinario interesse, in quanto strumento per la decifrazione delle dinamiche della religiosità popolare, è il capitolo relativo al Sentire rituale.

Chi ha affrontato questi argomenti con taglio scientifico, mi ricorda il severo ammonimento di etnologi, antropologi, etc., di non limitarsi agli aspetti descrittivi dei fenomeni osservati, ma di indagare costantemente ciò che questi sottendono; o ciò a cui alludono, ricorrendo alle più svariate forme simboliche.

                        Secondo Perniola il sentire rituale, in parte coincidente a suo giudizio con il sentire cattolico, non va interpretato facendolo coincidere soltanto con una “ritualizzazione di un mito originario” (Mircea Eliade), o alle svariate funzioni e scopi illustrati da Aldo Natale Terrin ne Il rito, quanto rinunciando radicalmente “all’impostazione logocentrica e discorsiva del soggettivismo moderno”. In sostanza, ed è questo il nocciolo della riflessione di Perniola, chi pretende di leggere le varie manifestazioni del rito attribuendogli “un significato, un’intenzione”, si confina in un approccio ideologico, intellettualistico; che fa ricorso, nella ferrea opposizione a ciò che assume la “dimensione oggettuale, cerimoniale”, ad una aggettivazione somigliante allo sgranare un rosario dell’abiezione umana che, con la voce “degradante”, propone  l’attributo meno severo. In altre parole la modernità è fondata su un sentire dal di dentro che induce ad una riflessione mediata, concettuale; sembra cioè che non si avverta come “il rito sia un agire e non un pensare”.  Al filosofo certo non sfugge che l’azione presuppone il pensare e il sentire, ma queste facoltà, definite speciali, non presiedono ad attività complesse attestanti il primato assoluto della ragione e del linguaggio. L’aspetto centrale del saggio, per esplicita ammissione dell’autore, suggerisce di affrancarsi dal cosiddetto “pregiudizio antirituale”. Esso contrappone e predilige lo spirituale rispetto al corporeo, il pensamento rispetto alla pulsione, l’interiorità rispetto al gesto.

                        Assumendo la riflessione proposta da Carl Gustav Jung dopo aver visitato la più grande moschea del Cairo, il sentire rituale, al pari dell’invocazione non appagante ad Allah e rivelante “uno struggente desiderio, quando sorge il sole e da tutti i minareti risuona il canto del muezzin”, riferisce di “un’esperienza emotiva molto profonda”; mentre l’Om dell’India, in qualche misura simile alla sensibilità religiosa europea, costituirebbe un’invocazione che scaturisce da una visione contemplativa, totale.

                        Partecipare all’esperienza rituale comporta una messa tra parentesi del tempo ordinario, profano, della vita quotidiana, una sospensione delle attività abituali e un trasformarsi in attori del tempo sacro nell’azione scenica, corale di una comunità, di “una cosa che sente”. Ciò, lo ribadiamo, non va interpretato come l’approdo ad un rilievo mistico. Il rito, pensa Perniola citando ancora Terrin verso cui si mostra debitore, è “un prendere spazio e fare tempo, uno stare presso le cose del mondo senza fare loro violenza”.

                        Infine, nel capitolo conclusivo, Cattolicesimo ed estetica, l’autore riafferma il carattere estetico del cattolicesimo e quello rituale del sentire cattolico. Lo fa riferendosi ad alcune acquisizioni del grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar quando coglie nel luteranesimo una distorsione della sensibilità ebraico-cristiana, ridotta ad un “moralismo astorico”, sterile, in contrapposizione agli aspetti artistici, sensibili che il cattolicesimo ha rappresentato. Ancora von Balthasar ritiene che Lutero abbia provocato la condanna della dimensione sensibile, spalancando le porte alle tensioni antiestetiche della modernità, riverberatesi gradualmente anche nel cattolicesimo. Il quale nel novecento, ricorda Perniola, “si è massicciamente orientato verso l’eliminazione della forma”.

Perché stupirsi allora della progressiva sterilizzazione dei riti che celebrano il santo nero.

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