EMPATIA: CHIAVE PER ESPLORARE I CONFINI DELL'ANIMA di Pepi Burgio
Giorgia al telefono mi chiede: “gigioneggia, che vuol dire?”. Prima che abbozzi una risposta impegnativa mi anticipa: “che Galimberti un pò se la tira, insomma?”. Sì, sì, solo un pò, rispondo. E mi sento rinfrancato. Di se la tira non ho mai compreso appieno l’accezione.
Ho da poco scoperto un video di un paio di anni fa, è una conversazione di Umberto Galimberti, filosofo e psicoterapeuta molto noto e prestigioso, e Eugenio Borgna, psichiatra, primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara, autore di importanti pubblicazioni per Feltrinelli, nonché uno dei maestri di Galimberti. Il pretesto di questo lungo e affascinante confronto è offerto dall’ultima pubblicazione di Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore.
Eugenio Borgna, che è nato nel 1930, si offre per una voce segnata dall’età e da qualche accidente intercorso; a tutta prima sembra aver fretta, ma in realtà è solo per il timore che qualche parola sfugga al controllo della fonazione. Inoltre il suo eloquio dispone ad una certa quiete interiore e ad una attenzione religiosa nell’ascolto. Strano scorgere nei gesti di un grande vecchio, nella dolce espressione dei suoi occhi, i tratti di una timidezza adolescenziale; che è ancora lì, a solcare un tempo della vita assai particolare.
Da adolescente, dice, “ero timido, fragile e insicuro”. Poi, con pudore corregge Galimberti, ma solo per una precisazione cronologica circa l’anno della scomparsa della madre, seguita a tre anni di distanza da quella devastante dell’amata Milena, la moglie a cui ha dedicato molte sue opere, Le intermittenze del cuore per esempio: “l’ultima dedica a Milena: nel dolore e nella speranza”. Galimberti aggiunge il ricordo di un’altra bella dedica: “a Milena per la sua grazia, per il suo sorriso, per il suo silenzio”. Il silenzio appunto, l’ascolto del silenzio dei pazienti e della propria interiorità, in modo di munirsi di una sensibilità fenomenologica; che assieme all’attenzione rivolta alle parole avvia la cura, che Borgna definisce “la capacità di connettersi con il proprio paziente”. Ma in cosa consiste la sensibilità fenomenologica. Nell’ascolto continuo delle risonanze soggettive, nella strutturazione di un contesto che favorisca l’emersione delle parole, o, come suggerirebbe Binswanger, nella comprensione esistenziale? E quali parole, qualsiasi parola o quelle che sporgono dal mondo della vita? Ancora ne Le intermittenze del cuore, Eugenio Borgna in esergo al primo capitolo, L’agonia della psichiatria, pone una intensa poesia giovanile di Rilke:
Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là la fine.
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio.
Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
A me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose.
La grande scoperta della fenomenologia, dice Galimberti, consiste nell’aver opposto al modello tradizionale platonico di anima-corpo, quello di corpo-mondo, mondo della vita, corpo vissuto, impegnato nel mondo. E ricorda che per Husserl noi non siamo soltanto un mero corpo fisico, körper, ma un corpo vivente, leib, in tedesco prossimo semanticamente tanto a liebe, amore, quanto a leben, vita.
Eugenio Borgna, sinceramente ammirato per il fascinoso dire del suo allievo, ma dispiaciuto dal dover riportarlo alla dura realtà della clinica, gli ricorda che la sua e di altri sensibilità fenomenologica si è plasmata intuitivamente, istintivamente, non attraverso un approccio filosofico con le connesse rigidità concettuali. E aggiunge inoltre che una certa comprensione pre-fenomenologica del disagio mentale è stata favorita dalla lettura di grandi scrittori, tra i quali Leopardi, Keats e Thomas Mann.
Alla fine della conversazione, convenuto con Husserl che la psicologia non può diventare scienza oggettivante, i due professori riconoscono nell’empatia, nell’interesse per quell’enigma drammatico che è l’uomo, ciò che dovrebbe rappresentare la cifra distintiva di medici, professori, psicologi e di chiunque si avverta vocato verso “una delicata dedizione alle anime”.
Ho fatto un semplice calcolo: oltre ad ascolto, la parola che più ricorre nel discorrere di Eugenio Borgna delle strategie terapeutiche, è gentilezza; questa rimanda ad un costume e ad una virtù che da tempo latita nelle relazioni sociali, se non nella forma seriale, aziendalista, al fine di imprimere un ritmo incalzante alla frenesia consumista. Un tempo, dice il dizionario Treccani, per gli stilnovisti la gentilezza la si acquisiva “con l’esercizio della virtù e con l’elevatezza dei sentimenti”.
Un greco, duemila e cinquecento anni fa, intorno al mistero che avvolge l’anima dei mortali, così aveva detto: “Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza”.
Però, i Greci.