GIANDOMENICO VIVACQUA - Il tema della nostra conversazione è una città, una comunità, la nostra, colta in un periodo di radicali trasformazioni: gli anni tra i cinquanta e i settanta del secolo scorso. A quando risalgono i tuoi primi ricordi adulti, consapevoli di Agrigento?
FAUSTO D’ALESSANDRO – I miei primi ricordi consapevoli di Agrigento risalgono al dopoguerra. Nel dopoguerra ero bambino, però ricordo molto bene alcune cose, ricordo come la gente vide nell’ingresso degli americani non un fatto di liberazione dal Fascismo – perché qua il Fascismo nostro era stato un Fascismo molto all’acqua di rose, come si soleva dire e come si è detto e come si dice tuttora. Ma lo vide come occasione di arricchimento, capì, ebbe immediatamente l’intuizione che esisteva uno spessore degli oggetti, delle automobili, delle motociclette, dei vestiti, della statura delle persone che dovevano diventare il modello. Io ebbi una percezione nettissima di questo… è lì che si rompe l’incanto, diciamo così, agrigentino, e ritengo siciliano. E’ lì che vengono cambiati interamente gli orizzonti e rinnovati i paradigmi: la ricchezza, il consumo, qualunque sia la base di partenza. E quindi sostanzialmente si scatena la corsa all’arricchimento. Ma l’arricchimento è un fenomeno globale, complessivo, della popolazione. All’arricchimento personale ci arrivano pochi. Ecco, allora, il riflusso continuo di questa città, che rapidamente si ripiegherà su stessa, nella ricerca clientelare del “posto”, del 27 del mese.
GIANDOMENICO VIVACQUA – Quali erano i luoghi e le circostanze sociali della tua adolescenza, della tua giovinezza che meglio rappresentavano quello che tu hai definito “l’incanto agrigentino”?