PIRANDELLO E LE SUE CENERI di Dante Bernini
Corrado Alvaro fu molto amico di Luigi Pirandello, ne frequentava la casa, ne
ascoltava la voce quando leggeva agli intimi, per averne il giudizio, le opere
appena finite di scrivere, ne sentiva il fascino. Quando il maestro siciliano
spirò sul suo lettuccio in un triste giorno del dicembre 1936, racconta Alvaro
nella sua memorabile prefazione al "Tutto Pirandello" della collana
mondadoriana dei Classici Contemporanei Italiani (Milano 1956):
"Quella mattina m´ero levato presto e sentimmo con mia moglie uno schianto in casa, come un mobile che si spacca pel caldo; cercammo dappertutto, non si era rotto niente, non era caduto niente. Qualche minuto dopo, una voce piangente al telefono ci diceva che Pirandello era morto qualche minuto prima. Fummo sicuri che quello schianto era stato un suo avviso, come se avesse picchiato forte chissà a quale porta." Ignoro se Alvaro avesse facoltà medianiche, ma tanto rumore di certo non si addiceva a Pirandello, come meglio si vide nel seguito della storia: Corrado Alvaro ne fu testimone oculare, e così ricorda: "Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce".
Alvaro era turbato da tanta indiscrezione, da "quel chiacchiericcio da
ricevimento", e comunque, ricorda ancora:
"Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c´era quel
silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di povero
cristo".
Poi si confuse nella folla che gremiva la casa, quella casa già nota ad
Alvaro che, descrivendo in particolare lo studio del maestro, nota che "nel
mezzo della stanza, lunga una diecina di metri, c´era il vaso greco figurato,
su una colonnina, unico ricordo della sua Sicilia". La scena della morte è
stata allestita, ma aggiunge Corrado Alvaro: "Tornato di là, fra la gente
sempre più fitta e curiosa, il figlio Stefano mi mostrò mezzo foglio di una
carta da lettere che conteneva le ultime volontà di lui: "quelle volontà senza
consolazione, senza rimedio, di andarsene sul carro dei poveri, di non essere
accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con le sue ceneri, o di
riposare in quella sua casetta del caso o del Caos come egli diceva, presso
Agrigento". C´era un prete "sconcertato" che "si dibatteva nella sua
perplessità: solo Dio poteva avere misericordia dell´uomo che disponeva di
essere bruciato e disperso".
"Il rappresentante del Governo lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si
domandava come avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo
celebre che va via in quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un
saluto, senza un pensiero, senza un omaggio sovratutto, chiedendo di essere
coperto appena di un lenzuolo, ma da nessuna uniforme, da nessuna camicia nera
come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazioni, senza feste.
Il rappresentante del Governo era un bravo tipo e umano, ma doveva rispondere
al suo capo, e il capo non poteva raggiungere un uomo nella morte; almeno la
morte era cosa tutta privata; la sola, allora. Disse: - se n´è andato
sbattendo la porta - ".
Passarono dieci anni da quel dicembre, anni tremendi per l´Italia, il Paese
era ancora mezzo sepolto nelle macerie della guerra voluta da quel capo
esigente, gli Agrigentini cominciavano appena a risvegliarsi dal lungo incubo
che era stata la guerra, i bombardamenti dal cielo e dal mare, l´occupazione
militare (dei Tedeschi a Nord, e a Sud e al Centro-Italia degli Anglo-americani
col seguito di Polacchi e Marocchini). Malgrado lo scatolame militare, di
corned beef o altre strane combinazioni alimentari, la polvere d´uovo, la
polvere di piselli e così via, la fame tuttora durava, come ancora dolevano le
spire quasi invincibili della dittatura che li aveva governati.
Quella però era la città della memoria, di Pindaro, di Empedocle, di Feace,
di Terone. Senza la camicia nera, senza il collare del Premio Nobel messogli al
collo nel 1934 dal re di Svezia, senza la bella uniforme di Accademico, che gli
stava tanto bene da sembrare che l´avessero inventata proprio per lui, come fu
detto da qualcuno ricordato di recente dal nipote Luigi Filippo D´Amico, doveva
assolutamente essere onorato dalla sua Città, il cui ceto intellettuale si
impegnò in un programma di festeggiamenti che avrebbe fatto illividire dall´
invidia quel bravo rappresentante del Governo che aveva salutato la salma di un
pover´uomo coperta appena da un lenzuolo.
Ma per "l´uomo delle contraddizioni", come suona il titolo del libro del
nipote qui ricordato, o più precisamente per i suoi resti mortali, era destino
che le celebrazioni coincidessero con altre tribolazioni, inflitte questa volta
a un simbolo, quale il genio di Pirandello fu, della protesta e del rifiuto. Fu
istituito un comitato nazionale per le onoranze presieduto dal prof.Gaspare
Ambrosini illustre giurista nativo della provincia, che accompagnò per tutto
il triste itinerario quel sacro fardello (la sacertà appartiene alla morte).
Teatro Margherita, malgrado la nobiltà del fine e la sostanziale unità degli
intenti, furono caratterizzate da tutta una serie di ostacoli, dal reperimento
del mezzo per il trasporto in Sicilia dell´urna cineraria, dapprima un aereo
messo a disposizione dalle autorità americane, preso d´assalto da una folla di
reduci e profughi che anelavano al ritorno in famiglia (si omette tutta la
serie di pettegolezzi che intorno a quel mancato volo fu inventata e diffusa),
poi il ricorso positivo grazie all´autorità che all´interno del governo
democristiano poteva esercitare il prof.Ambrosini, il quale ottenne la
disponibilità di una "littorina" su cui, protetta da un imballaggio accurato, l´
urna con le ceneri di Pirandello, recuperate dal Cimitero del Verano a Roma,
chiusa in una cassa di legno custodita dallo stesso Ambrosini e da chi lo
assisteva, fu caricata, così intraprendendo finalmente il viaggio verso la Città dei Templi.
diocesana) nello sforzo di esprimere la coscienza della storia su cui si regge
la civiltà e la vita stessa di un popolo.
A questo lungo bagaglio di notizie, altre seguiranno portandoci fino all´
ultimo atto che fu la tumulazione delle ceneri in quella sorta di mausoleo
quale è poi diventata la "rozza" pietra, scelta con scrupolosa cura dallo
scultore Marino Mazzacurati nella sassosa campagna del Caos strapiombante sul
"mare aspro africano". E qui presso è infatti la "Casa romita in mezzo a la
natia campagna" ora depauperata, per coerente fatalità, del pino che avrebbe
dovuto proteggere con la sua chioma il famedio innalzato con l´umiltà pretesa
dal personaggio onorato.
Su quest´ultimo adempimento della pietà della patria verso il suo illustre
figlio, sarà per empia indifferenza o per altra congenita insufficienza nel
controllo degli istinti, si aprì già tempo fa una diceria tuttora serpeggiante
circa una pretesa dispersione totale o parziale delle ceneri per inavvedutezza
dei responsabili. In molti hanno, o meglio, abbiamo stigmatizzato quel difetto,
se non altro, di informazione. In verità alla mia provocazione reagì Ermogene
La Foresta con la lettera che qui trascrivo, chiedendo scusa all´amico per il
ritardo con cui ciò avviene indipendentemente dalla mia volontà:
"Caro Dante, l´estate scorsa, come tradizione, non ci siamo visti. Auguri,
comunque, di salute e longevità.
Mi auguro che assieme a tutta la redazione, possa e possiate contribuire a
notizie sulle nostre cose.
Mi permetto scriverti, a proposito della ultima Rivista e per quanto riguarda
l´articolo su Pirandello, per darti delle informazioni, di prima mano:
1. la prima notizia, da me pubblicata, da te ripresa riguardo alla
dichiarazione di Castellana, che nel vaso greco rimasero delle ceneri;
2. la seconda che le ceneri furono portate via dal vento.
Dalla viva voce dell´artefice della costruzione dell´urna di piombo e della
collocazione:
1. i residui nel vaso non erano le ceneri di Pirandello, bensì i frammenti
minuti del coperchio;
2. le ceneri, quando ci si accorse che non era possibile collocarle,
per mancanza di spazio nell´urna, nella notte precedente all´inaugurazione, ne
venne costruita un´altra, dallo stesso tecnico Bruno Arezzo della
Soprintendenza. La collocazione avvenne al chiuso e venne anche saldata. Nessun
vento avrebbe, quindi, potuto portare via le ceneri. Suggestiva la tesi, ma
non reale.
Lieto di aver dato un contributo di verità, ti abbraccio e ti auguro buon
lavoro.
Ermogene La Foresta."
Sarà da aggiungere che dell´affaire si sono occupati anche Andrea Camilleri
con un lungo e informato articolo su "la Stampa" del giugno 2008, e
diffusamente un libretto "Le Ceneri di Pirandello", testo di Roberto Alajmo,
illustrazioni di Mimmo Paladino,.edito a Bagheria presso Drago edizioni nel
2008.
ascoltava la voce quando leggeva agli intimi, per averne il giudizio, le opere
appena finite di scrivere, ne sentiva il fascino. Quando il maestro siciliano
spirò sul suo lettuccio in un triste giorno del dicembre 1936, racconta Alvaro
nella sua memorabile prefazione al "Tutto Pirandello" della collana
mondadoriana dei Classici Contemporanei Italiani (Milano 1956):
"Quella mattina m´ero levato presto e sentimmo con mia moglie uno schianto in
casa, come un mobile che si spacca pel caldo; cercammo dappertutto, non si era
rotto niente, non era caduto niente. Qualche minuto dopo, una voce piangente al
telefono ci diceva che Pirandello era morto qualche minuto prima. Fummo sicuri
che quello schianto era stato un suo avviso, come se avesse picchiato forte
chissà a quale porta." Ignoro se Alvaro avesse facoltà medianiche, ma tanto
rumore di certo non si addiceva a Pirandello, come meglio si vide nel seguito
della storia: Corrado Alvaro ne fu testimone oculare, e così ricorda: "Noi
entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in
piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce".
Alvaro era turbato da tanta indiscrezione, da "quel chiacchiericcio da
ricevimento", e comunque, ricorda ancora:
"Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c´era quel
silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di povero
cristo".
Poi si confuse nella folla che gremiva la casa, quella casa già nota ad
Alvaro che, descrivendo in particolare lo studio del maestro, nota che "nel
mezzo della stanza, lunga una diecina di metri, c´era il vaso greco figurato,
su una colonnina, unico ricordo della sua Sicilia". La scena della morte è
stata allestita, ma aggiunge Corrado Alvaro: "Tornato di là, fra la gente
sempre più fitta e curiosa, il figlio Stefano mi mostrò mezzo foglio di una
carta da lettere che conteneva le ultime volontà di lui: "quelle volontà senza
consolazione, senza rimedio, di andarsene sul carro dei poveri, di non essere
accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con le sue ceneri, o di
riposare in quella sua casetta del caso o del Caos come egli diceva, presso
Agrigento". C´era un prete "sconcertato" che "si dibatteva nella sua
perplessità: solo Dio poteva avere misericordia dell´uomo che disponeva di
essere bruciato e disperso".
"Il rappresentante del Governo lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si
domandava come avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo
celebre che va via in quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un
saluto, senza un pensiero, senza un omaggio sovratutto, chiedendo di essere
coperto appena di un lenzuolo, ma da nessuna uniforme, da nessuna camicia nera
come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazioni, senza feste.
Il rappresentante del Governo era un bravo tipo e umano, ma doveva rispondere
al suo capo, e il capo non poteva raggiungere un uomo nella morte; almeno la
morte era cosa tutta privata; la sola, allora. Disse: - se n´è andato
sbattendo la porta - ".
Passarono dieci anni da quel dicembre, anni tremendi per l´Italia, il Paese
era ancora mezzo sepolto nelle macerie della guerra voluta da quel capo
esigente, gli Agrigentini cominciavano appena a risvegliarsi dal lungo incubo
che era stata la guerra, i bombardamenti dal cielo e dal mare, l´occupazione
militare (dei Tedeschi a Nord, e a Sud e al Centro-Italia degli Anglo-americani
col seguito di Polacchi e Marocchini). Malgrado lo scatolame militare, di
corned beef o altre strane combinazioni alimentari, la polvere d´uovo, la
polvere di piselli e così via, la fame tuttora durava, come ancora dolevano le
spire quasi invincibili della dittatura che li aveva governati.
Quella però era la città della memoria, di Pindaro, di Empedocle, di Feace,
di Terone. Senza la camicia nera, senza il collare del Premio Nobel messogli al
collo nel 1934 dal re di Svezia, senza la bella uniforme di Accademico, che gli
stava tanto bene da sembrare che l´avessero inventata proprio per lui, come fu
detto da qualcuno ricordato di recente dal nipote Luigi Filippo D´Amico, doveva
assolutamente essere onorato dalla sua Città, il cui ceto intellettuale si
impegnò in un programma di festeggiamenti che avrebbe fatto illividire dall´
invidia quel bravo rappresentante del Governo che aveva salutato la salma di un
pover´uomo coperta appena da un lenzuolo.
Ma per "l´uomo delle contraddizioni", come suona il titolo del libro del
nipote qui ricordato, o più precisamente per i suoi resti mortali, era destino
che le celebrazioni coincidessero con altre tribolazioni, inflitte questa volta
a un simbolo, quale il genio di Pirandello fu, della protesta e del rifiuto. Fu
istituito un comitato nazionale per le onoranze presieduto dal prof.Gaspare
Ambrosini illustre giurista nativo della provincia, che accompagnò per tutto
il triste itinerario quel sacro fardello (la sacertà appartiene alla morte).
Teatro Margherita, malgrado la nobiltà del fine e la sostanziale unità degli
intenti, furono caratterizzate da tutta una serie di ostacoli, dal reperimento
del mezzo per il trasporto in Sicilia dell´urna cineraria, dapprima un aereo
messo a disposizione dalle autorità americane, preso d´assalto da una folla di
reduci e profughi che anelavano al ritorno in famiglia (si omette tutta la
serie di pettegolezzi che intorno a quel mancato volo fu inventata e diffusa),
poi il ricorso positivo grazie all´autorità che all´interno del governo
democristiano poteva esercitare il prof.Ambrosini, il quale ottenne la
disponibilità di una "littorina" su cui, protetta da un imballaggio accurato, l´
urna con le ceneri di Pirandello, recuperate dal Cimitero del Verano a Roma,
chiusa in una cassa di legno custodita dallo stesso Ambrosini e da chi lo
assisteva, fu caricata, così intraprendendo finalmente il viaggio verso la Città dei Templi.
diocesana) nello sforzo di esprimere la coscienza della storia su cui si regge
la civiltà e la vita stessa di un popolo.
A questo lungo bagaglio di notizie, altre seguiranno portandoci fino all´
ultimo atto che fu la tumulazione delle ceneri in quella sorta di mausoleo
quale è poi diventata la "rozza" pietra, scelta con scrupolosa cura dallo
scultore Marino Mazzacurati nella sassosa campagna del Caos strapiombante sul
"mare aspro africano". E qui presso è infatti la "Casa romita in mezzo a la
natia campagna" ora depauperata, per coerente fatalità, del pino che avrebbe
dovuto proteggere con la sua chioma il famedio innalzato con l´umiltà pretesa
dal personaggio onorato.
Su quest´ultimo adempimento della pietà della patria verso il suo illustre
figlio, sarà per empia indifferenza o per altra congenita insufficienza nel
controllo degli istinti, si aprì già tempo fa una diceria tuttora serpeggiante
circa una pretesa dispersione totale o parziale delle ceneri per inavvedutezza
dei responsabili. In molti hanno, o meglio, abbiamo stigmatizzato quel difetto,
se non altro, di informazione. In verità alla mia provocazione reagì Ermogene
La Foresta con la lettera che qui trascrivo, chiedendo scusa all´amico per il
ritardo con cui ciò avviene indipendentemente dalla mia volontà:
"Caro Dante, l´estate scorsa, come tradizione, non ci siamo visti. Auguri,
comunque, di salute e longevità.
Mi auguro che assieme a tutta la redazione, possa e possiate contribuire a
notizie sulle nostre cose.
Mi permetto scriverti, a proposito della ultima Rivista e per quanto riguarda
l´articolo su Pirandello, per darti delle informazioni, di prima mano:
1. la prima notizia, da me pubblicata, da te ripresa riguardo alla
dichiarazione di Castellana, che nel vaso greco rimasero delle ceneri;
2. la seconda che le ceneri furono portate via dal vento.
Dalla viva voce dell´artefice della costruzione dell´urna di piombo e della
collocazione:
1. i residui nel vaso non erano le ceneri di Pirandello, bensì i frammenti
minuti del coperchio;
2. le ceneri, quando ci si accorse che non era possibile collocarle,
per mancanza di spazio nell´urna, nella notte precedente all´inaugurazione, ne
venne costruita un´altra, dallo stesso tecnico Bruno Arezzo della
Soprintendenza. La collocazione avvenne al chiuso e venne anche saldata. Nessun
vento avrebbe, quindi, potuto portare via le ceneri. Suggestiva la tesi, ma
non reale.
Lieto di aver dato un contributo di verità, ti abbraccio e ti auguro buon
lavoro.
Ermogene La Foresta."
Sarà da aggiungere che dell´affaire si sono occupati anche Andrea Camilleri
con un lungo e informato articolo su "la Stampa" del giugno 2008, e
diffusamente un libretto "Le Ceneri di Pirandello", testo di Roberto Alajmo,
illustrazioni di Mimmo Paladino,.edito a Bagheria presso Drago edizioni nel
2008.