QUANDO LENTEZZA FA RIMA CON ACUTEZZA di Pepi Burgio

Per caso, solo per caso, in TV ho visto, in ritardo di 23 anni, Il grande cocomero di Francesca Archibugi, film intenso, struggente, che ho molto apprezzato. L’ho visto con partecipazione immediata, come si usa dire col cuore in gola, liquidando, soltanto in parte, radicati pregiudizi nei confronti di un certo cinema italiano.

Il grande cocomero affronta temi assai scivolosi: il disagio mentale, l’incomprensione, la malattia psichiatrica negli adolescenti, la morte di una bambina, l’amore. Senza però pericolosi sbandamenti retorici in direzione dell’ammiccamento ruffiano o dell’enfasi. Ma con una rara, sorprendente grazia, testimonianza eloquente dello spessore poetico della regista e della maturità intellettuale con cui controlla rigorosamente il mezzo espressivo. Inoltre, ciò che più mi ha colpito è l’adozione di un ritmo narrativo oserei dire naturalistico, perfetto, sincronico con la descrizione dei vari vissuti.

In particolare, la lentezza con cui l’Archibugi indulge in alcune sequenze che attestano una raffinata sensibilità, rimanda a qualcos’altro, a qualcosa di più impegnativo ed urgente. La lentezza cioè, non è mera scelta formale, ma radicale, autentica demondanizzazione, direbbe qualcuno.

Mentre ancora trattengo la temperatura emotiva che Il grande cocomero mi impone, leggo, in un libro-intervista a Joseph Ratzinger, quel brano del discorso di Friburgo in cui Benedetto XVI invita a prendere le distanze dal potere, da Mammona, dalla falsa apparenza, dall’inganno e dall’autoinganno. Di sicuro la relazione fra lentezza e demondanizzazione andrebbe adeguatamente giustificata, mi pare tuttavia facciano entrambe parte della sterile resistenza ai fragori ed alle frenesie di un mondo artificioso accolto come vero.

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