Camminavamo, insieme e separati, fra le brusche deviazioni della foresta.
E' sera tardi, quando un paio di pagine di Fernando Pessoa incrociano l'urgenza di scovare parole esatte in onore di Fabio. Chiamo Giando. E' d'accordo. Forse domani in chiesa... Le leggo e le rileggo, davvero molto belle, anche se a tratti faticose.
Ma procedevamo anche disgiunti perché eravamo due pensieri e non avevamo null'altro in comune se non il fatto che ciò che non eravamo calpestava all'unisono lo stesso terreno udito.
Occorre però sentire i parenti. Giusto. Buonanotte, a domani. Ma di sicuro a lui sarebbero piaciute: quella foresta “simbolica e vera, il finire di un giorno, di tutti i giorni, in un autunno di tutti gli autunni”. Scusami ancora. Se troppo lunghe, taglia. Lo so che non va bene. Pessoa, poi... Vedi un po', sei tu che dovrai leggere. Buona notte.
Quali case, quali doveri, quali amori avevamo lasciato – noi stessi non avremmo saputo dirlo. In quel momento non eravamo altro che viandanti fra ciò che avevamo dimenticato e ciò che non sapevamo, cavalieri appiedati dell'ideale abbandonato. Ma in tutto ciò, come nel suono costante delle foglie calpestate e nel suono sempre brusco del vento incerto, c'era la ragion d'essere della nostra partenza o del nostro arrivo, giacché, non conoscendo il nostro cammino o il perché del cammino, non sapevamo se stavamo partendo o arrivando. E sempre, intorno a noi, senza sapere dove e senza vederne la caduta, il suono delle foglie che precipitavano addormentava di tristezza la foresta.