IL SENSO DI IDA PER IL CONVENTO di Pepi Burgio
L’identità, dicono, è in buona parte ciò che le particolari circostanze in cui ci si imbatte ti cuciono addosso. Così Anna, orfana quasi fin dalla nascita, ospite di un convento di suore, giovane novizia in procinto di prendere i voti, varca su disposizione della Madre Superiora il confine fra il dentro e il fuori per conoscere tale Wanda, sorella della madre. Il dentro è il luogo della frugalità dei pasti, della geometrica prostrazione delle novizie, della ritualità conventuale; il fuori è il conturbante caleidoscopio di una
modernità di latta, instabile e comunque sufficientemente seduttiva, che il regista del film Ida, il polacco Pawel Pawlikowski affida al magico gioco di riflessi sui vetri di un bus che porta Anna ad incontrare la sconosciuta zia Wanda. Wanda è donna sensuale, sfrenata nel consumo di tabacco, alcol, e di uomini, rosa dal senso di colpa, in quanto giudice, per avere condannato a morte diversi oppositori del socialismo.
Senza alcun preambolo, con ruvidezza, Wanda dirà ad Anna che il suo vero nome è Ida e che è un’ebrea.
Inizia così una relazione improbabile a prima vista, ed un viaggio alla ricerca dei luoghi dove sono stati occultati i corpi dei loro congiunti. Si tratta in un certo senso di un road movie alla polacca, che degli stilemi del genere tuttavia non ha nulla: né la suggestione del divenire del paesaggio, né l’accattivante sottolineatura della inebriante sensazione di libertà impressa sui volti, alla Thelma e Louise per intenderci. Né il commento musicale, in qualche caso usato come protesi su cui appoggiare uno zoppicante incedere narrativo, né, ancora, l’ipertrofia dialogica che spesso, dice Arnheim, paralizza l’azione visiva.
Ida è un film di asciuttezza e di rigore formale senza pari, i suoi sobri dialoghi sembrano strappati con sapiente misura alla virtuosa pratica dell’afasia. La malinconica bellezza di certe immagini ricorda che, oltre all’ovvia autonomia, esiste anche una stretta, altrettanto ovvia, relazione fra fotografia e movie, nonché il rimando archetipico, non mera citazione, ad alcuni topoi felliniani nelle scene iniziali descrittive della vita conventuale. E il montaggio, che con una scelta oggi improponibile di cadenze di linguaggio, assieme all’insistenza sui primi piani della protagonista (Agata Trzebuchowska), conferisce al film un’aura poetica di particolare incanto.
C’è poi Lis, giovane jazzista, che irrompe nella vita di Anna-Ida con la stessa forza eversiva delle deviazioni ritmiche del suo sassofono: hai idea dell’effetto che fai sugli uomini?.
Alla fine, dopo avere esperito le gradevolezze dell’amore profano, Anna chiede a Lis cosa li attenderà se sceglieranno la fuga d’amore.
Anna: e poi?
Lis: comprerò un cane e ti sposerò
A: e poi?
L: una casa, dei figli
A: e poi?
L: una spiaggia per correre sul mare
A: e poi?
L: e poi ci saranno i problemi...
E allora forse meglio prendere la strada del ritorno, tornare in convento alle sue austere regole rituali, ad un diverso radicamento nella corporeità (Perniola).
La strada che porta al convento è fredda, glaciale, avvolta nella foschia, ma forse, forse, Anna che ha coltivato la fugace illusione di mutarsi in Ida, al calore delle consuetudini conventuali tornerà a stare presso le cose del mondo senza fare loro violenza (Terrin). Chissà. Ad Anna, a Wanda, a Lis, a tutti noi, sottovoce, Pascal ricorda che in ogni caso Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo.