Cosa succede se un manipolo di di trentenni creativi, bohèmiennes poliglotta del XXI sec., una ventina di operatori artistici che da anni intervengono a Bruxelles e in altre città con il loro "Medex - Musée éphémère de l’exil", scelgono come loro laboratorio Agrigento? Cercheremo di raccontarlo attraverso i video, dall’interno, rinunciando alle interviste, ad uno sforzo di sintesi e ad una frontalità che sembrano scoraggiati dalla loro stessa modalità di intervento.
Circola da tempo un aneddoto (un apologo?) che, se non è vero, potrebbe presto o tardi diventarlo: un turista giapponese, dopo una giornata in giro per calli e campielli, sul far del crepuscolo ferma un veneziano e gli chiede: “mi scusi, a che ora chiude Venezia?”
Vera o falsa che sia, la storiella del giapponese che scambia la città lagunare per un parco a tema che a una certa ora chiude i cancelli (il tema: Venezia) dovrebbe far riflettere sul pericolo che corrono le maggiori tra le nostre città storiche, a cominciare proprio dalla più imitata, dipinta, visitata e fotografata. Quale pericolo? Diventare appunto dei parchi tematici per turisti compulsivi e viaggiatori colti; per scolaresche chiassose e disciplinati pensionati che si godono il meritato riposo periodicamente visitando “la storia”.
La questione della salvaguardia dei centri storici è una questione cruciale, ma non può essere affrontata isolatamente, staccandola dalla più generale e vitale questione dello spazio urbano nella sua interezza. Così facendo si rischia di creare due micro mondi separati dal censo, due città che non comunicano: una turistica e pedonalizzata, abitata da benestanti che potranno sostenere gli alti affitti e i prezzi di vendita degli immobili; l’altra periferica e inquinata, destinazione obbligata di tutti quelli che non saranno più in grado di sostenere l’aumento dei costi degli alloggi.
I sociologi hanno dato un nome a questo esodo involontario dal centro alla periferia: “gentrification”, che in sostanza significa modificazione a scopi speculativi del carattere sociale dei quartieri antichi ma non solo.
Trent’anni dopo la conquista dello scudetto, Diego Armando Maradona, soprannominato “el Pibe de oro”, è tornato a Napoli per festeggiare il fausto anniversario. Non che da allora non ci fosse più tornato, ma il ritorno di cui stiamo parlando è un ritorno speciale, direi unico e irripetibile, circonfuso dall’aura della trasfigurazione semidivina.
A rimettere piede a Napoli, infatti, non è un uomo, un ex calciatore di straordinario talento, ma una reliquia vivente che dal balcone del suo lussuoso hotel impartisce una sorridente benedizione al popolo adorante che in questi giorni ha di nuovo scandito che “Maradona è meglio e’ Pelè”.
Da qui le cose si vedono diversamente. Non è facile spiegare come adesso possa disporre di questo mio diario, anche se in realtà è molto semplice.
Semplice, ma anche inessenziale.
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Nella settima strada ogni sera c’è un uomo fermo all’angolo con Place Kennedy. Dalle sette alle otto. Lo osservo dalla finestra del mio appartamento al primo piano, immobile nel flusso della città, nelle prime luci accese contro il cielo che sembra già di petrolio.
Oppure mentre aspetto il verde del semaforo dal marciapiediedi opposto, e lui è un po’ curvo, infagottato in uno scialle come un berbero attorno all’oasi di Erfoud o come soltanto un vecchio malandato può permettersi di fare al centro di Star City. Quando finalmente attraverso la strada e guardo nel visore della piccola videocamera che tengo in mano, nel palmo della mano, lo vedo ingrandire a strappi, a sbalzi, e ringiovanire come in un sogno; fino a quando per un attimo incrocio il suo sguardo sul volto asciutto, rasato, che mi scruta come un gatto, ed è un viso pieno di angoli, piccolo, come strizzato da quello che sembrava uno scialle ed è invece una felpa azzurra avvitata intorno al collo, che potrebbe essere un indumento firmato, da snob, pulito e stinto.
Jim Jarmusch (Daumbailò, Strangers than paradise) appartiene alla non folta compagine di “autori totali” (come Malick e Dolan e da noi Garrone e Sorrentino) che sin dall’esordio lavorano con rigore e coerenza all’approfondimento di una personale idea di cinema, sideralmente lontana da quella (ammesso che sia un’idea) adrenalinica o effettistica dei prodotti, talvolta persino inappuntabili nella “confezione”, che vanno per la maggiore e godono di una imbattibile preponderanza distributiva. L’idea di Jarmusch è insieme semplice e affascinante: se una faccia o un oggetto o una luce sono importanti, fermati a guardarli, dai tempo alla tua visione di diventare la visione dello spettatore.
A questa regola non fa eccezione Paterson, diretto e sceneggiato dallo stesso Jarmusch, opera di trama esile e quasi inesistente che racconta una settimana nella vita ordinaria di una coppia di giovani molto innamorati e molto comuni. Lui si chiama come la città in cui vivono, Paterson (Adam Driver, già visto nell’ottimo Hungry hearts di Saverio Costanzo), e per campare fa l’autista d’autobus; la moglie Laura (Goldshifteh Farahani) è invece una allegra e creativa casalinga che fa dolci squisiti e sogna di diventare una cantante.
Niente sembra turbare o anche soltanto increspare la routine risveglio colazione lavoro ritorno (un guasto all’impianto elettrico del vecchio mezzo è il massimo dell’imprevisto); nessun particolare avvenimento attende dietro l’angolo il giovane Paterson, che ogni giorno guida il suo autobus numero 23 e ogni sera porta a spasso il cane e si ferma per una birra e due chiacchiere al bar del vecchio collezionista di fotografie di glorie locali.
Recentemente è finito al centro di una polemica, ridicola e feroce, per un commento pubblicato su Facebook e successivamente da Facebook rimosso per inadeguatezza del contenuto.
Non se l'aspettava, Vittorio Alessandro, il contrammiraglio in pensione (tecnicamente, nella riserva) del corpo delle Capitanerie di Porto, attualmente al vertice del parco naturale delle Cinque Terre.
Villa Bonfiglio dal balcone di casa mia è un bagliore lontano, acceso dal vento di tramontana. Spesso, anche in città sconosciute, ci si lascia guidare dalle luci. Di giorno dalla luce del sole. E' pressoché inevitabile camminare verso la luce del tramonto, la luce calda che accende i colori e brilla sull’asfalto come acciaio fuso, profilando nel controluce i passanti.
Stesso giorno, stesso giornale, diverse soltanto le pagine, per una fortuita coincidenza il Corriere della sera ha pubblicato due interventi, che un tempo sarebbero stati bollati come anticomunisti e, di conseguenza, viscerali.
Dunque è possibile. Anche in una città come Palermo, i cui abitanti avevano progressivamente convertito le automobili in costosissime e inefficienti protesi per spostarsi anche di poche centinaia di metri, anche in una città che meravigliava i visitatori per l'impatto sonoro e visivo del suo traffico, per la sua evidente insensatezza, perfino a Palermo è possibile impedire alle automobili l'accesso al centro.