Sabato sera siamo andati a trovare Mimmo Galletto nella sua casa a Raffadali. Ci siamo accomodati in cucina, dal balcone si vedeva la strada vuota, ormai buia, dove ogni tanto scivolavano i fari accesi di un'auto. Mimmo è una rara persona che crea spontaneamente, forse inavvertitamente, la scena già incorniciata dentro la quale parla, racconta, recita versi suoi e di altri poeti o di anonimi contadini, ragiona con competenza da filologo sulla rifonetizzazione di un verso raccolto a Sambuca e recitato a Raffadali, ricorda il suo paese com’era e lo racconta com’è. C’è solo da posizionare una piccola videocamera e accenderla, sperando che la ignori, che non chieda di spegnerla.
Cerco di dare il mio contributo, da appassionato, non certo come esperto. Giorni fa siamo stati investiti un po’ tutti da un gran polverone mediatico scaturito da un post sul forum dell’Accademia della Crusca. Il post inquisito è stato redatto dal prof. Vittorio Coletti, linguista e docente di italiano nonché consigliere della Crusca.
Il post rispondeva all’ennesima richiesta di chiarimenti sull’uso transitivo di verbi intransitivi come “uscire”, “sedere” e appunto l’esempio portato nella domanda era se fosse mai corretto utilizzare espressioni come “siedi il bambino”.
I titoli di tutti, dico tutti, i magazine online sono stati di questo tenore: “La Crusca sdogana l’uso di siedo il bambino”.
Certo, ha fatto comodo ai siti di news “sparare” il titolo ad effetto, e l’effetto c’è stato eccome: il polverone. Un polverone che ha oscurato il vero senso delle parole del prof. Coletti e che pochi hanno letto.
Non so se qualcuno abbia scritto sul successo che sta riscuotendo in sala il film di Schnabel su Van Gogh. Un successo per molti versi sorprendente, difficilmente spiegabile. Dopo un formidabile lancio pubblicitario sui media televisivi, il film in Italia è uscito il 3 gennaio piuttosto in sordina. Dopo due settimane è il quinto film più visto nelle sale italiane. Un successo commerciale.
Il fatto è abbastanza sorprendente perché ’Van Gogh, sulla soglia dell’eternità’ è un film che ha tutte le caratteristiche dell’opera d’autore, dall’uso non pretestuoso del soggetto storico - uno scorcio biografico del pittore olandese - alla sceneggiatura che dirada i dialoghi, dall’uso spiazzante delle musiche originali e del sonoro, dal montaggio scandito da sconnessioni temporali e sintattiche alla oltranzistica cifra visionaria dello stile.
Sono rari, quindi preziosi, quei libri che aiutano ad inoltrarsi nel linguaggio scabroso di alcuni grandi pensatori del ‘900. Uno di questi è Heidegger & sons di Donatella Di Cesare. Lettura in un certo senso natalizia, ovvero da solitaria clausura al frastuono del mondo. Fra i mille spunti offerti da questo bel libro, quello sul breve saggio di Martin Heidegger, Perché restiamo in provincia?, mi è sembrato particolarmente interessante; e non solo perché, per un attimo, mi sono illuso di poter iscrivere le mie prosaiche fobie in una grande cornice filosofica. La Di Cesare ribadisce convintamente la stretta relazione, in verità già messa in luce da altri, tra il pensiero di Heidegger, in particolare sul versante della critica radicale della modernità, e il luogo, la solitaria baita di montagna di Todtnauberg, dove il filosofo concepì gran parte della sua imponente produzione. In perfetta solitudine, considerata da Heidegger non come mera tonalità psicologica, quanto condizione necessaria dell’accadere della filosofia. Il suo pensiero - dice la filosofa romana - è legato a quel luogo, dove la meditazione non cerca ampiezza ma profondità.
‘Certo che mi manca il mio paese. Mi manca la lingua, parlare toscano, il cibo e la famiglia, gli amici.’
Sorride con l’aria del bravo ragazzo che impara il mestiere di adulto: 35 anni, architetto, Sergio lavora presso uno studio in Toscana che sta realizzando diversi progetti a Marrakech. Vi risiede ormai da un paio di mesi e dovrà restarci almeno un anno.
Meta mezzo secolo fa dei primi giramondo ventenni, quelli nati dopo la guerra mondiale e in cerca di spaesanti altrove nella sua Medina, oggi Marrakech è meta di un turismo godereccio e a buon prezzo che anima le notti della città moderna. Ed è anche approdo per giovani laureati italiani come Sergio che vi si recano, anche di malavoglia, per lavoro.
Di sicuro la città ha perso il fascino e il mistero descritti da Canetti nei primi anni ‘60.
‘È rumorosa, incasinata, è un po’ come Napoli ma senza la violenza di Napoli’, dice Sergio, in gita ad Essaouira insieme ai due genitori pensionati che sono venuti a trovarlo.
Hanno preso alloggio presso il Riad di un loro concittadino di Pontedera, Massimo, che ad Essaouira vive da venti anni e che ha sposato una marocchina.
Se avessi nipoti racconterei loro questa favola; diversi amici miei sono nonni e uno, Giovanni, ha la fortuna d’avere nipoti e figli piccoli; e so pure, da amici, anzi no: da uno dei suoi figli, che racconta loro raccontini e favole. Un po’ lo invidio.
Io la fortuna non ce l’ho e la favoletta la racconto a voi.
C’era una volta – tutte le favole cominciano con un “C’era una volta” – un piccolo imprenditore edile...
un imprenditore edile? Eh, sì: un piccolo imprenditore edile; una volta i protagonisti delle favole erano principi, principesse, re, draghi, streghe e cortigiane, ma oggi in tempo di repubbliche e di capitale e di finanza, i personaggi sono diversi... si adeguano ai tempi: che credibilità avrebbe una favola d’oggi che, in tempi di repubblica e di cavalieri pur senza paura e piuttosto privati del cavalierato a causa di macchia, favoleggiasse ancora di reami e di cavalieri senza macchia e senza paura?
Per Pasolini, prima che ne leggessi una sola pagina o vedessi un solo fotogramma dei suoi film, nutrivo un forte sentimento di attrazione, semiologico, estetico, come una tensione immediata, credo condivisa anche da alcuni miei coetanei, come me venuti su un po’ strani.
Per questo sono grato al mio amico A. T., il quale mi ha fatto conoscere una pubblicazione del 2005 della prestigiosa casa editrice Archinto che raccoglie il testo di un’intervista dell’autore de Le ceneri di Gramsci, rilasciata a New York nel 1969 a Giuseppe Cardillo, allora Direttore dell’Istituto italiano di cultura.
Rimasta sepolta per quasi quarant’anni, qualche anno fa è stata meritoriamente riesumata da Luigi Fontanella, ordinario di letteratura italiana alla State University di New York. Il quale oltre ad averne curato la pubblicazione, ha scritto un’introduzione di grande pregevolezza.
Spesso a chiosare i commenti a proposito della sentenza che ha assolto Virginia Raggi, la sindaca di Roma, torna il consueto refrain che da qualche tempo ormai accompagna le sentenze poco gradite al commentatore: Le sentenze non si discutono. Questa specie di motto, meglio, questa frase che è diventata un motto, ormai usata e abusata, è nata in ambiente giudiziario e, più in particolare in quello forense; se la si riportasse completa così come è nata, sarebbe: Le sentenze non si discutono, ma si appellano.
Senza la conclusione rimane un'affermazione priva di senso, anzi, del tutto sbagliata.
Ottanta. Sono passati ottant'anni e due mesi e una manciata di giorni dal 5 settembre 1938, la data che nel calendario della nostra vicenda nazionale significa una delle pagine più vergognose e tristi: la promulgazione delle leggi razziali che espulsero dalla vita civile migliaia di cittadini italiani di religione ebraica.
Impiegati, medici, avvocati, editori furono messi al bando con una semplice ma micidiale firma apposta alla fine di poche pagine gelidamente discriminatorie volute da Benito Mussolini per compiacere l'alleato tedesco, quell'Adolf Hitler che aveva fatto della soluzione del "problema ebraico" uno dei pilastri del suo programma reazionario.
Il clic del fotografo è come una puntura di spillo, diceva più o meno Cartier Bresson. La sua era una reticente ammissione di colpevolezza, raramente dichiarata dai fotografi.
Bufalino avvertiva attorno alla camera oscura odore di zolfo, confermando la cattiva reputazione dei fotografi, associati spesso ai ladri o addirittura ai killer, o a meno luciferini ma altrettanto biasimevoli profittatori, estetizzanti le disgrazie altrui, a volte anche solo quella di avere un certo volto, una particolare espressione.
Quel senso di colpa del fotografo, consapevole o rimosso, rimanda alla costitutiva infedeltà della ripresa fotografica, a quel mimetismo che aveva sbalordito il pubblico per quaranta anni e che l’invenzione del cinema, della ‘fotografia in movimento’, aveva poi rivelato nella sua astrattezza e irrealtà.
Nell’immagine fotografica infatti il tempo è assente. Immersi nello spaziotempo, l’astrazione spaziale ci appare, come nella pittura, fondamentalmente artificiale, linguistica.