MENTO DUNQUE SONO di Giorgia Cuffaro*
L’arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c’è nell’esperienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di fondare teoricamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza sui generis, diversa beninteso da quella conoscenza sensibile che fornisce alla scienza i dati sulla cui base essa costruisce la conoscenza della natura, diversa altresì da ogni conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza intellettuale, ma tuttavia pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità? (H.G. Gadamer, Verità e metodo)
Prima di chiedersi se l'arte possa dare accesso al vero occorrerebbe porsi la domanda sostanziale su che cosa l'arte sia; e subito rinunciare a rispondere. Wittgenstein diceva che domande che non ammettono risposte dimostrabili non dovrebbero neppure esser poste.
Che in ciò sia contenuto l'atto di autocastrazione della filosofia, da sempre tesa ad interrogare ed interrogarsi su tutto, l'ha sostenuto Jonas:" Bisogna che qualcuno si sforzi di tenere viva l'antica fiamma della metafisica. Tuttavia la pretesa di concentrare nel cerchio chiuso di una definizione qualcosa di così fluido come l'esperienza artistica va decisamente al di là dei nostri diritti. "Cos'è l'arte" significa "non ho la più pallida idea di che cosa sia il moderno"; non perché ciò di cui si richiede una descrizione di esaurisca nella cosiddetta arte moderna, ma poiché l'arte tout court incarna l'essenza della modernità. C'è una parola che le avvolge entrambe in un solo gesto ed è "sradicamento". La bellezza, come l'uomo moderno, non ha terra natia; la sua patria non solo è l'intero mondo della vita, ma l'eternità. In altri termini non troverò bello un dipinto che lo sia oggettivamente: la precisione del tratto, la cura del pittore nello sfumare il colore, le luci e il loro perfetto equilibrio con le ombre non mi colpiranno in quanto tecnicamente ineccepibili.
Non esistono luoghi universalmente abitati dall'arte, non i musei non i teatri; i tedeschi esprimono questa mancanza di radici con la parola "Bodenlosen". Per questo scorrere inarrestabile sempre al di fuori degli argini, per la sua irriducibile mobilità chiedere dove stia di casa il bello è lo stesso del domandare da dove provenga un viandante che casa non ha. Dall'assenza di un fondamento universale dell'arte, di un crisma che la bellezza riceverebbe una volta e per sempre in quanto tale, non deriva però l'assoluta negazione di una verità in qualche modo racchiusa nel prodotto artistico e coglibile immediatamente tramite esso.
A ragione Gadamer cita la funzione dell'estetica come riconoscimento teorico della qualità metafisica dell'arte (di una concezione dell'architettura - per esempio - come organo di verità, veicolo di contenuti che trascendono la robustezza o il pregio esteriore del marmo della facciata di una chiesa). Eppure il paradosso è che proprio l'atto di nascita dell'estetica come disciplina sistematica ha decretato la "morte dell'arte ". Come un ingrato che divora ciò a cui deve se stesso, il teorico del bello nell'annunciare la piena - sebbene ancora non discorsiva - rivelazione della verità nella poesia strappa via il suo velo di mistero, la calda opacità propria solo della dimensione artistica; ne espungere il fascino, la componente criptica e allusiva, la denatura e lentamente la uccide. L'arte muore - spiega Hegel - nell'epilogo del suo rapporto con l'essenza: per suo naturale statuto può solo contenere in forma intuitiva l'essenza infinita del mondo, evocare la verità di Dio che si è fatto carne in simulacri e simboli, ma tutto questo l'ha già fatto e - ecco il peggio - l'estetica l'ha spiegato. L'arte muore nei musei, nella critica, muore nelle aste, nel buono e cattivo gusto, nella separazione degli stili; ogni riferimento alla "scienza" del bello è un respiro che gli si sottrae.
Che farsene allora di un momento dello Spirito assoluto che ha esaurito le sue possibilità di senso. A suggerirlo è la voce oracolare della Arendt nella sua lucida requisitoria contro il mondo moderno. Sembra risuonare una lontana eco platonica nella sua affermazione secondo cui l'immagine non è nient'altro che menzogna, una menzogna però senza candore.
È qui che l'influsso di Platone si disperde: l'artista non è più invasato, a giurarlo non è una musa ma il calcolo razionale, l'autonomo esercizio della sua volonta; la necessità è scalzata dalla libertà, l'ingenuità dalla responsabilità etica del creare.
Rimane costante la fantasia, "la Matera più densa dell'universo", diceva un personaggio di Brasillach; e cos'è la fantasia se non l'arma della menzogna.
Nel saggio "Sul presunto diritto di mentire per il bene dell'universo" Kant oppone alla menzogna non la verità ma la veracità, ossia il voler dire il vero pur affermando a volte il falso. È il fondamento dell'etica dell'invenzione: mentire vuol dire usare consapevolmente la fantasia per inventare qualcosa che non è o non è ancora; dire il falso credendolo vero non è mentire perché manca l'atto creativo di modificare la realtà.
Ma se ogni forma d'arte in quanto creata dall'uomo è una menzogna e se è vero - come afferma la Arendt - che la sede privilegiata della menzogna è l'agone politico, ecco fornita all'arte una nuova destinazione: la propaganda.
Suo compito non è più la mimesis del mondo, ma il suo rovesciamento (allo stato attuale sembra che l'undicesima tesi su Feuerbach abbia avuto più presa sull'arte che sulla filosofia).
Edifici, manifesti, discorsi si fanno strumenti dell'uomo d'azione, del demagogo come dell'uomo di stato, oggetivano cioè la sua volontà di uscire fuori dallo Zeitgeist, di superare lo spirito del proprio tempo; e il ponte che lega l'inadeguatezza dell'oggi al futuro è la menzogna, il dire ciò che si vorrebbe al posto di ciò che è.
In questo senso l'arte non si appiattisce sul reale, né si limita a rivendicarne la verità essenziale; arte è dire se necessario anche la morte piuttosto che soggiacere alla tirannia di una vita sentita come ingiusta; menzogna è mortificare il presente e creare dal nulla il domani.
Non è azzardato affermare che "la musica [insuperabile modo dell'arte] esisterebbe quand'anche non esistesse il mondo": in fondo l'intera storia del mondo non ci sarebbe mai stata senza atti creativi.
Mentire non è altro che questo: guardare oltre il proprio naso e poi correre a prendere ciò che si è visto in lontananza.
*Giorgia Cuffaro frequenta la III A del Liceo Empedocle di Agrigento. Ha partecipato recentemente alle Olimpiadi regionali di Filosofia, sbaragliando la concorrenza. Allieva del professore Pepi Burgio, si è segnalata nel recente passato anche per aver partecipato, con contributi vivaci, a incontri pubblici come quello, organizzato dal Centro Culturale Pasolini, sull' eredità del movimento del '68