«“T’arritrari, Paolì, t’arritrari”, gli dicevo ogni volta. Paolino manco rispondeva, si voltava e andava via. Lavoravamo insieme alla miniera. Pirriatùri io, manovale lui. Qualche mese prima, quando i parenti della ragazza mi avevano detto di no, non me l’ero fatto ripetere due volte. C’ero rimasto male, è vero, ma avevo accettato e, per tornare a casa, non passavo più per via Reale. Il padre della ragazza, dopo tutto, c’era morto. Era successo molto tempo prima. Io nemmeno l’avevo conosciuto. Non ci lavoravo ancora alla Ciavolòtta. Però, ogni tanto, ne sentivo parlare, quando facevamo una pausa e i compagni più anziani si mettevano a ricordare quelli che c’erano rimasti. A quanto pareva, quella volta, c’era stato uno scoppio di grisou e il padre della ragazza se l’era preso in pieno, aveva perso i sensi e non era più tornato. Ma era successo prima della guerra e Angelina doveva essere ancora una bambina. “T’arritrari, Paolì, t’arritrari”, gli dicevo ogni volta. Quando infatti, un giorno, mi era arrivata voce che la ragazza era stata promessa a lui, a uno che era un surfaràru come me, l’avevo presa come un’offesa, una cosa che il Signore non poteva benedire. Se non me la danno perché la miniera fa venire brutti pensieri, lo posso capire, ne basta già una di disgrazia sotto un tetto, ma a un surfaràru come me, a uno che fa il manovale e guadagna persino meno di me, non è una cosa giusta.