TENDERE LA MANO A CHI E' SULL'ORLO DELL'ABISSO. NOTA SU MCCARTHY di Pepi Burgio

Sottrattosi alla calca di molti personaggi e alle diacronie di una trama che ha reso gravoso Il passeggero, ecco Stella Maris, altro momento del dittico di Cormac Mc Carthy. Il pretesto per osare queste note mi è offerto da un giudizio comparso sul New York Times e virgolettato dalla Einaudi per pubblicizzare il libro: "Leggere Stella Maris dopo Il Passeggero è come aggrapparsi a un sogno perché non finisca. Un sogno arcano, conturbante, sintonizzato sul rumore bianco dell'universo". Ma il sogno è svanito, Mc Carthy è morto e le ultime parole che sigillano il libro, di una potenza lirica ineguagliabile, sospendono, ma solo per un attimo, il sapore amaro del dialogo fra Alicia Western, giovanissima matematica di genio, affetta da schizofrenia paranoide, e il suo terapeuta, il dottor Cohen della clinica psichiatrica "Stella Maris". Il quale avverte - siamo nel 1972, cioè prima di alcune importanti applicazioni scientifiche in campo psichiatrico - la drammatica difficoltà di offrire una cura a quei pazienti che "spesso hanno la tendenza ad abbandonare quello che amano per quello che li rende infelici".

Le sette sedute terapeutiche che compongono il romanzo investono il lettore di una quantità fluviale di teorie scientifiche, matematiche e fisiche, nonché di acquisizioni filosofiche solo in parte tese a celare alcuni intrichi inconsci che alla fine paiono affacciarsi alla coscienza. Dapprima Alicia respingerà l'ossessione valutativa della psicologia: "Nel test non c'è una domanda sulla musica. Per dire. A quanto pare la musica non conta. Così qua dentro c'è un nero con un QI stimato a ottantacinque che qualunque metro di misura si voglia adottare è un genio musicale. Semplicemente incommensurabile. Ma per quelli del QI è poco più di un deficiente". Successivamente Alicia esporrà in maniera compiuta la sua opinione, con riferimenti a Husserl e alla psichiatria fenomenologica che a Husserl si richiama: "Lei non può vedere il mondo che vedo io. Non può vedere con questi occhi. Non potrà mai". Prima ancora, nel corso della quarta seduta, Alicia dirà al dottor Cohen: "per avere questa conversazione con lei - questa o qualsiasi altra, suppongo - sono costretta a fare una serie di concessioni non solo al suo punto di vista ma proprio alla forma del mondo così come appare dalla posizione in cui lo abita lei". Nell'eloquio sofferto di Alicia è presente il richiamo alla "decenza umana", estranea a suo dire a buona parte della cultura filosofica prima ancora che alla pratica terapeutica; e, ma ciò è molto inquietante, al tramonto di quella "forma del mondo" che deve gran parte della sua fisionomia alla civiltà del dialogo così come Platone l'aveva disegnata quattro secoli prima di Cristo. Stella Maris del dialogo conserva più che altro l'aspetto formale, fisico; siamo in presenza in realtà di un monologo con cui il personaggio di Alicia si offre al suo autore come risonanza del testamento che anticipa il suo congedo dal mondo. Esaurita in gran parte ogni restante fiducia nella cura, "i medici dell'anima mancano d'immaginazione", Alicia, il cui cognome è Occidente, pare che liberi da ogni remora le pulsioni nichiliste della poetica di Mc Carthy, così come le abbiamo conosciute in altri suoi romanzi: "Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intende distruggere". Però, come già ne La strada, il finale prodigioso di questo Dostoevskij della pianura consegna una disperata speranza con la sua cifra nel paradosso: "Sono successe tante cose brutte" - dice ne La strada il padre al bambino fra le macerie di un mondo deflagrato - "ma siamo ancora qui". Più tenere e accorate le parole ultime di Stella Maris: per un attimo Mc Carthy, potente esploratore del male, dissolve la consistenza granitica del suo nichilismo attraverso un segno cristiano. Dice il dottor Cohen ad Alicia: Credo che il nostro tempo sia scaduto. Lo so. Mi tenga la mano. Tenerle la mano? Si. Voglio che lo faccia. D'accordo. Perché? Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa