VORREI SAPERNE DI PIU', PER CAPIRE di Gaetano Savatteri

E’ vero. Drammaticamente vero che non ci sono perdenti e vincenti nella guerra di mafia che ha dilaniato Regalpetra e tanti altri paesi e città della Sicilia. La definizione è solo di comodo, per distinguere chi, nell’infuriare della battaglia e dei lutti, prevalse e chi invece fu costretto a soccombere sotto il piombo. Ma il risultato, ha ragione l’autore di questa testimonianza, è a somma zero: lutti da una parte e dall’altra, dolori e galera da una parte e dall’altra. Il risultato è a somma zero per i protagonisti e i responsabili della faida tra gli affiliati di Cosa Nostra e gli stiddari, ma il totale è meno di zero per le comunità che hanno assistito, con spirito di complicità o di rassegnazione, alla mattanza che oltre ai morti ha lasciato sul terreno relazioni sociali straziate, cumuli di paura, contiguità e silenzi. Mi colpisce, di questa testimonianza, una parola che non ho sentito pronunciare a nessuno di coloro che ho intervistato per il mio libro “I ragazzi di Regalpetra”: la parola “vergogna”. L’autore o l’autrice di questo scritto, così toccante nella sua laconicità, non ha alcuna colpa, se non quella di provenire da una famiglia di mafiosi. Eppure sente gravare su di sé la vergogna per quanto i propri parenti hanno fatto. Mi ricorda molto un racconto di Vitaliano Brancati, nel quale un soldato di ritorno dalla guerra decideva di lasciarsi andare, di rifiutare la vita, di vivere nell’abbrutimento, perché sentiva su di sé la responsabilità di avere partecipato a una carneficina mondiale, al punto da addossarsi la colpa di efferatezze che non aveva commesso in prima persona. Questa voce anonima e dolente, proveniente dal mondo della mafia, da una famiglia di mafia, è la più genuina controprova di quel che ho tentato di raccontare nel mio libro: c’erano i responsabili dei crimini, ma c’era una responsabilità individuale e collettiva che riguardava tutti, tutti coloro che facevano finta di non vedere, di non sapere, di non capire. Nel paese, dentro le famiglie. Molti, forse i migliori, alla fine si limitavano a cambiare marciapiede, ad evitare frequentazioni con uomini e picciotti che stavano facendo carriera dentro Cosa Nostra. Qualcuno cercava di reagire rimettendo insieme i cocci rotti di una collettività, tessendo i fili di una trama sociale incrinata. Giovanni Taglialavoro, nella recensione al mio libro, si interroga giustamente su quali fossero i dialoghi e le parole che passavano dentro le famiglie di mafia. Credo non fossero parole diverse da quelle comuni a molte famiglie siciliane, magari dentro un codice di cose non dette, di rapporti formalmente corretti, ma malamente nutriti. Dialoghi su cose concrete, su dettagli di vita quotidiana che tendevano a escludere il mondo circostante. La testimonianza pubblicata su Suddovest ne è la controprova: “…per quanto mi riguarda posso solo dire che a casa mia, si viveva una vita normale e che non si era mai parlato di tutto quello che aveva a che fare con le attività mafiose, e i rapporti familiari era ottimi , almeno così credevamo...”. Ecco, su questi puntini di sospensione mi piacerebbe saperne di più da chi ha scritto queste parole. “Così credevamo…”. Un giorno però le cose cambiarono. Perché e come? E quanto duro fu scoprire la realtà se addirittura è stato necessario lasciare la propria terra, il proprio paese, la propria famiglia per ricominciare a vivere? Vorrei saperne di più. Per capire. Per capire se, oggi e per il futuro, saremo capaci di evitare il peggio.
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