FELICE, SE FOSSE UNO SCRITTORE di Vito Bianco
Submitted by Suddovest on Sun, 10/08/2008 - 23:14
§ Racconto §
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Se quel mercoledì non fosse improvvisamente mancata l’acqua, forse non avrei mai saputo nulla. Invece quella mattina l’acqua dal rubinetto aperto non uscì. Si sentì un fischio, prima un fischio e poi un risucchio, e poi ancora uno sbuffo liquido, come l’estrema esalazione di un residuo rimasto a metà del percorso, sorpreso dal venir meno della forza che spinge il proprio contenuto verso la realizzazione del suo scopo: dare l’acqua agli assetati, l’acqua a quelli che sentono il bisogno di lavarsi.
Con le mani inutili sotto la bocca asciutta del rubinetto cominciai lentamente a maledire il Sindaco incapace e tutta la giunta parentale, composta di cugini e cognati di consiglieri comunali con molti voti, molta ambizione e poca capacità amministrativa, quasi tutti impegnati nelle periodiche crisi che sfociano nei rimpasti al vertice che nulla cambiano se non i nomi sulle caselle, sugli assessorati, che passano da un incompetente a un altro in uno stolido e interminabile gioco dei quattro cantoni che addormenta le menti e distrae le volontà. Tutto il resto è chiacchiera sportiva e briscola, in quattro o in cinque, che è sempre meglio della chiacchiera sulla campagna-acquisti tra tifosi di opposte fedi calcistiche. In questo paese spopolato, spolpato e invecchiato dalla noia, è giusto quello che ci vuole, pensai dopo qualche minuto. Ce lo meritiamo. Ci meritiamo di puzzare di sudore; ci meritiamo di non poterci lavare; di restare luridi nell’aria calda del mese di agosto; e io mi merito di grattarmi di nascosto come un pidocchioso. Hanno ragione loro; se resto qua, hanno ragione quelli del Comune, e torto io. Posso solo rinfrescarmi con Tutte le poesie di Luciano Erba, che sanno di primavera, di papaveri e di vento di montagna. Non c’è niente di meglio, quando manca l’acqua e non puoi lavarti.
Alle sei uscii. Al bar chiesi un’Acquatonica con limone, fredda e aspra, con le bollicine che mi saltavano sul naso tirandomi sulla soglia dello starnuto. Che non ci fu. Angelo, il gestore, disse: “Raccontano in giro che ci rubano l’acqua, che si sono attaccati alle nostre tubature. Sarà. Ma quelli quanto possono rubare? La verità è che hanno chiuso l’invaso della Torretta per risparmiare. Risparmiare”, ripeté con un ghigno che gli conoscevo bene. “Dovrebbero vergognarsi a risparmiare su un servizio essenziale come quello idrico”. Mi salì dalle cosce un’altra vampata di insofferenza, che mi fece sentire ancora più sporco.
Mi grattai sotto la nuca, lì dove i capelli finiscono e comincia il collo, e poi più giù, tra le scapole, rapido ma deciso. Angelo non si accorse di niente, o fece finta.
Volevo farmi almeno uno sciampo; attraversai la stretta via che collega san Biagio con la piazza del Municipio ed entrai da Felice il barbiere, dove subito l’odore di lozione e crema da barba mi fece sentire meglio, tanto che per un po’ smisi di grattarmi. Avevo davanti un paio di clienti, e per ingannare l’attesa mi misi a sfogliare l’ultimo numero di Gente. Gente è un settimanale popolare, il migliore della categoria; si occupa prevalentemente di personaggi del mondo dello spettacolo, di aristocratici, di santi e miracoli, con qualche puntata nel sociale. E’ l’ideale per aspettare il turno nei Saloni, e io non chiedo di meglio, non ho pretese, capisco perfettamente che ogni altra lettura sarebbe sbagliata, fuori posto, stonata.
Ma il numero che avevo tra le mani era speciale. Era speciale perché l’editoriale era dedicato alla scomparsa di una redattrice del giornale, avvenuta pochi giorni prima. Aveva cinquantaquattro anni; si chiamava Anna. Il testo di commemorazione diceva che Anna era una professionista appassionata; che era allegra, ironica e generosa, sempre pronta a dare un suggerimento, una dritta a un collega in difficoltà, a consigliare con tatto e complicità il modo migliore per cominciare un articolo, quello che nel gergo di chi scrive si chiama “attacco”, con un termine che fa pensare - che a me fa pensare - alla scherma, uno sport che ho sempre desiderato praticare ma non ho mai praticato, a Santaninfa negli anni Settanta non c’erano scuole di scherma, c’era però una Radio libera e la Colonia estiva dalle parti di Selinunte, un posto con case basse e quadrate posate sulla spiaggia a un tiro di fionda dal mare, come bunker contro lo sbarco del nemico; ma allora io non notavo l’orrore, pensavo ai bagni e alla ragazze, anzi no, pensavo solo ai bagni, le ragazze le vedevo soltanto nei sogni, ed erano sempre ingenue e caste storie d’amore, che mi davano allegria per tutta la giornata.
L’articolo anonimo, collettivo, firmato idealmente da tutti i colleghi della redazione diceva che lei, Anna, era brava a trovare gli attacchi più efficaci, una delle regole del mestiere sostiene che bisogna partire bene per agganciare subito il lettore, ma sarà poi vero che avviene così l’aggancio? E se invece il lettore fosse respinto dalla brillantezza dell’inizio? E poi: qual è il criterio per giudicare un buon incipit? Io credo di saperlo, ma non è il caso di dirlo qui, non è l’argomento di questa testimonianza.
E’ ovvio che in quel momento non pensavo nulla di tutto questo; pensavo ad Anna, ai suoi articoli, che avevo tante volte letto dal barbiere, aspettando di farmi tagliare i capelli o di radermi. A volte però verso l’ora della chiusura, ci andavo apposta per sfogliare i settimanali di pettegolezzi e leggere gli articoli di Anna. Restavo su quella pagina; leggevo e rileggevo quelle parole incantato e stupito, incantato e incredulo, e addolorato, e desolato, proprio come se stessi leggendo la notizia della scomparsa di un parente, di un amico, di un amico d’infanzia magari non visto da trent’anni, che ti pare sia morto a tredici anni, perché è a quell’età che lo tieni nella memoria, e allora ti dici io ho i capelli bianchi e lui ha smesso di respirare a tredici anni, la vita è proprio infame; la vita, il destino, quello che è; non il dolore, pensi, ricordando la frase di una scrittrice inglese, no, non il dolore, ma la natura incomprensibile dell’esistenza.
Quando vado a guardare la fotina nella pagina della Gerenza, lei è sempre lì col suo sorriso azzurro e i capelli biondi corti, comodi per chi per lavoro viaggia spesso; biondi e lisci con una nota scura sul davanti. E’ la prima nella fila degli Inviati. Non riesco a capire se sorride. Noto però che non guarda l’obiettivo come fanno tutti gli altri. Anna guarda di lato. Guarda qualcosa che sta arrivando, che sta aspettando. Non so che cosa sia, e forse non lo sa nemmeno lei. Seduto col settimanale in mano non mi accorgo che tocca a me e un cliente arrivato dopo ne approfitta. Anche Felice si dev’essere distratto. Non me ne importa. Meglio così. Posso ricominciare a leggere.
Dice l’editoriale che il desiderio di tutti loro è di ricordarla com’era da viva perché lei amava la vita: era allegra, ironica, sempre pronta a mettersi in gioco. Ma se non avesse amato la vita, come l’avrebbero ricordata? L’avrebbero scritto che non l’amava? Non lo so. Credo di no. Però avrebbero potuto scrivere una cosa come: ”il suo rapporto con la vita era complicato”, un modo per far capire ma senza dirlo chiaramente. Ma non era il caso di Anna che, dice il testo, viveva come scriveva.
Nella pagina di destra c’è un’altra fotografia che la ritrae a figura quasi intera. Con la mano sinistra tiene all’orecchio il cellulare; con la destra una maschera antigas. La didascalia dice che è stata scattata a Gerusalemme. Quindi Anna si occupava anche di guerra. La sua espressione è concentrata. Come se avvertisse il pericolo potenziale, la morte improvvisa nascosta dietro l’aria calma. Ha l’aria consapevole di uno straniero in un luogo insidioso. Però nello stesso tempo appare determinata, convinta di poter far bene quello che ha saputo sempre fare.
Quando Felice mi fa segno che tocca a me, lascio la rivista sul tavolo. Lo faccio con tutte e due le mani, adagio, con la sollecitudine ispirata dal rispetto per quella vita che ha abbandonato la terra lasciando buone tracce di sé. Forse ha ragione Callimaco: “Dei giusti non puoi dire che sono morti”. Non so se ha lasciato figli, un marito. L’articolo non lo dice.
Mentre mi chino il ventilatore mi solleva i capelli e mi rinfresca il sudore sulla fronte. Poi mi ritrovo seduto in poltrona con la testa appoggiata sull’incavo di una bacinella di smalto. Arriva l’acqua; tiepida. Felice mi massaggia la testa, insapona e sciacqua, insapona e sciacqua. Me la godo e mi viene sonno. Non che il senso di desolazione e il sapore amaro in gola e sulla lingua siano spariti; no, ci sono ancora, insieme a un principio di pianto, una specie di voglia di scioglimento degli occhi; una voglia che hanno di lavarsi. Non posso mettermi a piangere per una che nemmeno conoscevo, mi dico, mentre Felice mi friziona i capelli con l’asciugamano. E perché no, poi? Chi me lo vieta?
“ Ma tu la conoscevi Anna?”, chiedo a Felice. “Anna chi?”, dice lui.” La giornalista di Gente”, dico io. “E’ morta. Non la leggeremo più”.
Siccome non è così che voglio finire, non è così che me ne voglio andare dal salone di Felice gli dico che stavo ripetendomi a voce alta le battute finali di un film con Robert Duval. Lui sorride con tutta la faccia e dice: “Non l’avevo capito”. E mi saluta agitando in aria il pennello per le barbe, che lui taglia da maestro, con una mano leggerissima e veloce. Non ho dubbi: se fosse uno scrittore sarebbe Henri Beyle.
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Se quel mercoledì non fosse improvvisamente mancata l’acqua, forse non avrei mai saputo nulla. Invece quella mattina l’acqua dal rubinetto aperto non uscì. Si sentì un fischio, prima un fischio e poi un risucchio, e poi ancora uno sbuffo liquido, come l’estrema esalazione di un residuo rimasto a metà del percorso, sorpreso dal venir meno della forza che spinge il proprio contenuto verso la realizzazione del suo scopo: dare l’acqua agli assetati, l’acqua a quelli che sentono il bisogno di lavarsi.
Con le mani inutili sotto la bocca asciutta del rubinetto cominciai lentamente a maledire il Sindaco incapace e tutta la giunta parentale, composta di cugini e cognati di consiglieri comunali con molti voti, molta ambizione e poca capacità amministrativa, quasi tutti impegnati nelle periodiche crisi che sfociano nei rimpasti al vertice che nulla cambiano se non i nomi sulle caselle, sugli assessorati, che passano da un incompetente a un altro in uno stolido e interminabile gioco dei quattro cantoni che addormenta le menti e distrae le volontà. Tutto il resto è chiacchiera sportiva e briscola, in quattro o in cinque, che è sempre meglio della chiacchiera sulla campagna-acquisti tra tifosi di opposte fedi calcistiche. In questo paese spopolato, spolpato e invecchiato dalla noia, è giusto quello che ci vuole, pensai dopo qualche minuto. Ce lo meritiamo. Ci meritiamo di puzzare di sudore; ci meritiamo di non poterci lavare; di restare luridi nell’aria calda del mese di agosto; e io mi merito di grattarmi di nascosto come un pidocchioso. Hanno ragione loro; se resto qua, hanno ragione quelli del Comune, e torto io. Posso solo rinfrescarmi con Tutte le poesie di Luciano Erba, che sanno di primavera, di papaveri e di vento di montagna. Non c’è niente di meglio, quando manca l’acqua e non puoi lavarti.
Alle sei uscii. Al bar chiesi un’Acquatonica con limone, fredda e aspra, con le bollicine che mi saltavano sul naso tirandomi sulla soglia dello starnuto. Che non ci fu. Angelo, il gestore, disse: “Raccontano in giro che ci rubano l’acqua, che si sono attaccati alle nostre tubature. Sarà. Ma quelli quanto possono rubare? La verità è che hanno chiuso l’invaso della Torretta per risparmiare. Risparmiare”, ripeté con un ghigno che gli conoscevo bene. “Dovrebbero vergognarsi a risparmiare su un servizio essenziale come quello idrico”. Mi salì dalle cosce un’altra vampata di insofferenza, che mi fece sentire ancora più sporco.
Mi grattai sotto la nuca, lì dove i capelli finiscono e comincia il collo, e poi più giù, tra le scapole, rapido ma deciso. Angelo non si accorse di niente, o fece finta.
Volevo farmi almeno uno sciampo; attraversai la stretta via che collega san Biagio con la piazza del Municipio ed entrai da Felice il barbiere, dove subito l’odore di lozione e crema da barba mi fece sentire meglio, tanto che per un po’ smisi di grattarmi. Avevo davanti un paio di clienti, e per ingannare l’attesa mi misi a sfogliare l’ultimo numero di Gente. Gente è un settimanale popolare, il migliore della categoria; si occupa prevalentemente di personaggi del mondo dello spettacolo, di aristocratici, di santi e miracoli, con qualche puntata nel sociale. E’ l’ideale per aspettare il turno nei Saloni, e io non chiedo di meglio, non ho pretese, capisco perfettamente che ogni altra lettura sarebbe sbagliata, fuori posto, stonata.
Ma il numero che avevo tra le mani era speciale. Era speciale perché l’editoriale era dedicato alla scomparsa di una redattrice del giornale, avvenuta pochi giorni prima. Aveva cinquantaquattro anni; si chiamava Anna. Il testo di commemorazione diceva che Anna era una professionista appassionata; che era allegra, ironica e generosa, sempre pronta a dare un suggerimento, una dritta a un collega in difficoltà, a consigliare con tatto e complicità il modo migliore per cominciare un articolo, quello che nel gergo di chi scrive si chiama “attacco”, con un termine che fa pensare - che a me fa pensare - alla scherma, uno sport che ho sempre desiderato praticare ma non ho mai praticato, a Santaninfa negli anni Settanta non c’erano scuole di scherma, c’era però una Radio libera e la Colonia estiva dalle parti di Selinunte, un posto con case basse e quadrate posate sulla spiaggia a un tiro di fionda dal mare, come bunker contro lo sbarco del nemico; ma allora io non notavo l’orrore, pensavo ai bagni e alla ragazze, anzi no, pensavo solo ai bagni, le ragazze le vedevo soltanto nei sogni, ed erano sempre ingenue e caste storie d’amore, che mi davano allegria per tutta la giornata.
L’articolo anonimo, collettivo, firmato idealmente da tutti i colleghi della redazione diceva che lei, Anna, era brava a trovare gli attacchi più efficaci, una delle regole del mestiere sostiene che bisogna partire bene per agganciare subito il lettore, ma sarà poi vero che avviene così l’aggancio? E se invece il lettore fosse respinto dalla brillantezza dell’inizio? E poi: qual è il criterio per giudicare un buon incipit? Io credo di saperlo, ma non è il caso di dirlo qui, non è l’argomento di questa testimonianza.
E’ ovvio che in quel momento non pensavo nulla di tutto questo; pensavo ad Anna, ai suoi articoli, che avevo tante volte letto dal barbiere, aspettando di farmi tagliare i capelli o di radermi. A volte però verso l’ora della chiusura, ci andavo apposta per sfogliare i settimanali di pettegolezzi e leggere gli articoli di Anna. Restavo su quella pagina; leggevo e rileggevo quelle parole incantato e stupito, incantato e incredulo, e addolorato, e desolato, proprio come se stessi leggendo la notizia della scomparsa di un parente, di un amico, di un amico d’infanzia magari non visto da trent’anni, che ti pare sia morto a tredici anni, perché è a quell’età che lo tieni nella memoria, e allora ti dici io ho i capelli bianchi e lui ha smesso di respirare a tredici anni, la vita è proprio infame; la vita, il destino, quello che è; non il dolore, pensi, ricordando la frase di una scrittrice inglese, no, non il dolore, ma la natura incomprensibile dell’esistenza.
Quando vado a guardare la fotina nella pagina della Gerenza, lei è sempre lì col suo sorriso azzurro e i capelli biondi corti, comodi per chi per lavoro viaggia spesso; biondi e lisci con una nota scura sul davanti. E’ la prima nella fila degli Inviati. Non riesco a capire se sorride. Noto però che non guarda l’obiettivo come fanno tutti gli altri. Anna guarda di lato. Guarda qualcosa che sta arrivando, che sta aspettando. Non so che cosa sia, e forse non lo sa nemmeno lei. Seduto col settimanale in mano non mi accorgo che tocca a me e un cliente arrivato dopo ne approfitta. Anche Felice si dev’essere distratto. Non me ne importa. Meglio così. Posso ricominciare a leggere.
Dice l’editoriale che il desiderio di tutti loro è di ricordarla com’era da viva perché lei amava la vita: era allegra, ironica, sempre pronta a mettersi in gioco. Ma se non avesse amato la vita, come l’avrebbero ricordata? L’avrebbero scritto che non l’amava? Non lo so. Credo di no. Però avrebbero potuto scrivere una cosa come: ”il suo rapporto con la vita era complicato”, un modo per far capire ma senza dirlo chiaramente. Ma non era il caso di Anna che, dice il testo, viveva come scriveva.
Nella pagina di destra c’è un’altra fotografia che la ritrae a figura quasi intera. Con la mano sinistra tiene all’orecchio il cellulare; con la destra una maschera antigas. La didascalia dice che è stata scattata a Gerusalemme. Quindi Anna si occupava anche di guerra. La sua espressione è concentrata. Come se avvertisse il pericolo potenziale, la morte improvvisa nascosta dietro l’aria calma. Ha l’aria consapevole di uno straniero in un luogo insidioso. Però nello stesso tempo appare determinata, convinta di poter far bene quello che ha saputo sempre fare.
Quando Felice mi fa segno che tocca a me, lascio la rivista sul tavolo. Lo faccio con tutte e due le mani, adagio, con la sollecitudine ispirata dal rispetto per quella vita che ha abbandonato la terra lasciando buone tracce di sé. Forse ha ragione Callimaco: “Dei giusti non puoi dire che sono morti”. Non so se ha lasciato figli, un marito. L’articolo non lo dice.
Mentre mi chino il ventilatore mi solleva i capelli e mi rinfresca il sudore sulla fronte. Poi mi ritrovo seduto in poltrona con la testa appoggiata sull’incavo di una bacinella di smalto. Arriva l’acqua; tiepida. Felice mi massaggia la testa, insapona e sciacqua, insapona e sciacqua. Me la godo e mi viene sonno. Non che il senso di desolazione e il sapore amaro in gola e sulla lingua siano spariti; no, ci sono ancora, insieme a un principio di pianto, una specie di voglia di scioglimento degli occhi; una voglia che hanno di lavarsi. Non posso mettermi a piangere per una che nemmeno conoscevo, mi dico, mentre Felice mi friziona i capelli con l’asciugamano. E perché no, poi? Chi me lo vieta?
“ Ma tu la conoscevi Anna?”, chiedo a Felice. “Anna chi?”, dice lui.” La giornalista di Gente”, dico io. “E’ morta. Non la leggeremo più”.
Siccome non è così che voglio finire, non è così che me ne voglio andare dal salone di Felice gli dico che stavo ripetendomi a voce alta le battute finali di un film con Robert Duval. Lui sorride con tutta la faccia e dice: “Non l’avevo capito”. E mi saluta agitando in aria il pennello per le barbe, che lui taglia da maestro, con una mano leggerissima e veloce. Non ho dubbi: se fosse uno scrittore sarebbe Henri Beyle.
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