ULTIMO GIORNO DI PONENTE di Alessandro Salas

Un passo più un passo più un passo più un passo fanno cinquecento metri di spiaggia e una serie di orme lasciate a scomparire sulla sabbia. Camminando verso ovest sono lugubri ombre lunghe di sole basso settembrino e il vento che spinge da dietro, poderoso, maleducato se vogliamo, mafioso volendo, è il mio territorio questo, fuori dai coglioni. Ma è vento, poderoso quanto si vuole ma vento, non può impedire che ti volti, se vuoi, faccia al sole, a rimisurare per la decima volta questo fazzoletto di terra sbriciolata. Ed è tutt’un’altra storia, adesso. Non si sente più nulla se non lui che rumoreggia come mille lenzuola stese ad asciugare e solleva foulard di sabbia per posarli su altra sabbia che poi risolleva e poi giù e ancora e ancora.
Inutile vento.
Qui dura tre giorni. Uno. Due. Tre. Sempre. Come sapesse contare. “È l’ultimo giorno questo, domani cala”, ed è invariabilmente così da un’infinità di vite. L’uomo non è un animale che si fa troppe domande. Il pinguino, quello sì, perché perché perché, non la smette mai. Ma l’uomo. Prende le cose come vengono. Tre giorni? Va bene, basta saperlo.
E io qui che cammino da un’ora e incrocio orme tutte uguali e il mare grigio schiuma che nemmeno i gabbiani diocristo questo tempo di merda io lo odio il vento.
E allora perché.
Eh.
Dando le spalle al mare le case abusive sembrano venute giù dal cielo a caso e per caso atterrate per il giusto verso e non su un fianco, per esempio. E per grazia di dio stare in piedi. Hanno distrutto un posto bellissimo, non si sono rubati solo i soldi, hanno rubato l’anima alla terra.
Alla mia terra.
Eppure dio mi perdoni quelle case sembrano stare bene lì dove sono.
Ho freddo. Il vento mi preme sul timpano sinistro che va a finire che mi prendo l’otite che da piccolo era una tortura non si capisce com’è che le gocce dall’orecchio te le senti amare in gola – in gola! – ma dico io le vogliamo fare bene le cose o no, l’orecchio è orecchio e la gola un’altra cosa, come adesso che la gola ha un groppo, diciamo un magone, ma l’orecchio mica è otturato, se lo prende il vento, come no, se lo prende tutto che se non mi sposto da così vaffanculo l’uomo non è un animale fatto bene, non è nemmeno bello. Il tapiro, quello sì, un figo, scopa un sacco. Ma l’uomo. L’orecchio è orecchio e la gola un’altra cosa, diocristo.
E allora dite perché.
Eh.
Guardando a ovest oltre le ciminiere a strisce bianche e rosse si intravede una costa che è la mia costa, una punta bianca come un dito che indica l’Africa a ricordarmi che vengo di lì, io, mica da un’altra parte. Lo dicono i miei occhi i capelli la mia pelle, che ritrova se stessa solo sotto il sole, come quella di tutti, del resto, abbronzati sono tutti più belli e allora perché non siamo sempre abbronzati, no, l’uomo è un animale che non funziona bene, si scotta si spella suda. Il ramarro, quello sì, quaranta gradi sotto il sole e lui niente, coerente, verde. Ma l’uomo. Bianco nero beige rosso giallo verdino, tutte sfumature, mai un colore netto, una decisione chiara.
Mai.
Tipo io che vorrei adesso magari stare in un baretto caldo con una donna bella, o in una donna calda con un bel baretto, avviato possibilmente, la volta buona che scopo come si deve e mi sistemo pure e invece il mare si sta alzando e si mangia spiaggia e parte delle mie scarpe e porcaputtana ’sto vento mi gonfia la testa come un pallone e intreccia i capelli e stanotte è nevralgia assicurata mentre misuro per la quindicesima volta cinquecento metri di desolata rena intervallata da quantomeno desolante fogna gettantesi nel mare che voglio dire facessimo come gli animali che cagano un po’ ovunque magari si sporcherebbe di meno che convogliare tutta la merda e poi buttarla nello stesso posto, ecco, cagare lo facciamo tutti gli animali uguale, per esempio. La zanzara, quella…non lo so se la zanzara caga, non ci metterei la mano sul fuoco.
Tanto più che questo schifo di vento confonde le idee.
E allora dite ma perché, vieni via di lì.
Eh.
Il sole schiacciato ora poggia sull’orizzonte, un sole strano che venti giorni fa era enorme e diceva vieni, mi fai una sega a me, ora vado ma domani torno e ti spacco il culo e oggi pare raffreddato, stitico, che si sforza di mandare calore ma niente, un sole da azione cattolica. Qua il freddo sembra uno sbaglio. Qui un maglione assume sfumature di cattiveria che una magliettina mezze maniche non ha. Qui il vento dura tre giorni e il resto una vita, i pensieri lenti, i vecchi vecchi, le donne mamme, il mondo lontanissimo, la vita di tutti fissata per sempre in un superotto di trent’anni fa. Per chi torna, una sicurezza. Per chi resta, una condanna.
Eppure.
Eppure a questo punto che il sole è praticamente andato giù, il vento sostenuto, il freddo insostenibile, l’emicrania in agguato io mi sono addirittura seduto e la sabbia ora ce l’ho anche tra i denti e gli occhi rossi e scendono giù certe gocce grosse che almeno se passa qualcuno dice mica piange, è il vento, certe gocce grosse e salate, ecco, prendi il sale nelle lacrime a che cazzo serve non si capisce se ci mettevano magari anidride carbonica uno piangeva e invece di questo schifo ti leccavi acqua frizzante, niente, un animale progettato con poca cura, l’uomo. Il cavalluccio marino, quello sì, non piange nemmeno ad ammazzargli la madre, niente, tutto d’un pezzo, lui. Mica io che ora tra emicrania, pianto e sabbia in bocca mi viene pure da vomitare. E allora dite perché, vieni via di lì coglione.
Eh.
Finché il cielo non lo vedo diventare nero, ma dico nero, come la notte quando è notte di qui non schiodo.
Perché domani parto, e magari sotto la bufera ma l’ultimo tramonto a casa mia non me lo toglie nessuno.

 

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