LA SINISTRA CHE NON C'E' di Tano Siracusa
Il ’68: c’era una scolastica marxiana, e varie scuole interpretative al suo interno, ciascuna con i suoi testi canonici. Importanti case editrici si schieravano fra i fautori dei ‘Manoscritti economico-filosofici’ del 1844 e i cultori della Introduzione ai ‘’Gründrisse’’ del 1857. C’era un marxismo che contrapponeva alle istanze utopistiche e all’ottimismo umanistico del giovane Marx la scientificità della sua critica dell’economia politica negli scritti della maturità. Althusser in Francia e Galvano della Volpe in Italia erano i principali riferimenti di un neomarxismo che sembrava voler aggirare i fallimenti teorici della II e della III Internazionale.
E arriva l’onda del ’68: il Vietnam, Praga, Che Guevara e la rivoluzione culturale nella Cina di Mao, la sensazione di un imminente, doloroso ma felice parto della Storia. L’internazionalismo era allora una bandiera e un’ovvietà che nascondevano una colpevole ignoranza delle dinamiche all’interno delle ex colonie europee, in Asia, Africa e America Latina.
In Italia un gruppo di intellettuali comunisti radiati dal PCI per la loro critica rigorosa al regime sovietico, ragionavano nella loro prestigiosa rivista, il Manifesto, sulla maturità del comunismo nei paesi di capitalismo avanzato. Vi si leggevano anche colti ed eleganti spropositi sulla rivoluzione maoista e ci si contentava di celebrare ‘La battaglia di Algeri’ di Pontecorvo o di citare Frantz Fanon per certificare la propria buona coscienza terzomondista. Sulle colonne del Manifesto o di Critica marxista non si leggeva quasi nulla su quanto accadeva nelle nostre ex colonie, Libia, Somalia, Abissinia, Albania, paesi quasi tutti oggi al centro della crisi.
Quando alla fine degli anni ’70, fra le stragi neofasciste e di Stato e il terrorismo brigatista, l’onda di quel movimento generoso e ingenuo si ritira, c’è giusto il tempo di far sparire Marx dagli scaffali fra i sorrisi soddisfatti di Craxi, Thatcher e Reegan. Poco dopo il colosso sovietico implode e inizia la nuova fase di mondializzazione neoliberista favorita dalle nuove tecnologie digitali e dall’irruzione sul mercato dell’est postsovietico.
Sono gli anni in cui D’Alema scrive molti brillanti articoli su Repubblica nei quali l’Africa sembra essere stata cancellata dal pianeta. L’Internazionalismo non è più neanche una bandiera: la classe operaia, già in ritirata dopo le conquiste degli anni settanta, è quella nazionale, al massimo europea. La parola proletariato, forse per il suo connotato generico, universalista, è scomparsa dal vocabolario dei marxisti italiani.
Dopo il fallimento del modello staliniano e di quello maoista, dell’eurocomunismo e del compromesso storico, la fine dell’Unione sovietica di Brezhnev offre ai manuali di storia la data convenzionale della bancarotta delle forze anticapitaliste che maturava dagli anni ’80.
La crisi attuale della cosiddetta sinistra ha le sue radici allora: che nel ’94 gli eredi del PCI guidati da Occhetto potessero vincere le elezioni contro il primo Berlusconi è stata una circostanza tanto reale quanto paradossale. Infatti vinse Berlusconi.
Per circa 20 anni Marx sparisce dagli scaffali, dai corsi di laurea, dalle collane di saggistica, mentre un turbocapitalismo che disloca sempre più il potere dagli organismi statuali ai potentati economici e finanziari internazionali, procede a smantellare definitivamente le conquiste del movimento operaio e ad erodere la presenza dello stato sociale.
E’ in questa nuova fase, di sbaraglio crescente della sinistra anticapitalista sul piano internazionale, che irrompe la crisi del 2008, in un quadro ormai profondamente segnato dai flussi migratori transnazionali in Europa, in Africa, in Medio Oriente, nelle Americhe.
Sono gli anni in cui un’opinione pubblica europea che aveva rimosso secoli di sfruttamento coloniale vede materializzarsi nelle proprie città gli avamposti di un esercito di disperati in fuga da paesi devastati dalla miseria, dalle guerre, dalle dittature, dalla spoliazione dei loro territori avvenuti ad opera delle potenze coloniali prima e delle multinazionali poi.
Gli eredi di una sinistra italiana ed europea che contendono alla destra l’efficienza nei respingimenti, scoprono finalmente che esiste una dimensione internazionale non solo dei capitali ma anche dei flussi di forza lavoro. Legali i primi, illegali in gran parte ma non meno reali i secondi, che infatti comprimono i livelli retributivi nei settori del mercato del lavoro meno qualificato privo di rappresentanze sindacali, in balìa spesso di un capolarato delinquenziale e impunito. Ma che investono anche la forza lavoro qualificata e inserita nei circuiti dell’economia legale, dove la flessibilità del lavoro, la facilità nel licenziare, a delocalizzare, ha come premessa la briglia sciolta del mercato che tende a massimizzare i profitti comprimendo i salari di una di forza lavoro in esubero e mondializzata.
Non stupisce allora che in attesa che un nuovo Marx venga a illuminare la scena, il vecchio Marx torni sugli scaffali delle librerie un po’ in tutto il mondo. Si può capire. Su alcuni aspetti della contemporaneità - i processi di alienazione, di mercificazione universale delle relazioni umane, di crescente dominio delle macchine sulla forza lavoro - il pensatore di Treviri sembra davvero essere stato profetico. Al di là del fallimento storico dei movimenti che si sono ispirati al marxismo, rimane la sua più grave incomprensione, quella dei limiti dello sviluppo produttivo, incompatibile con un sistema chiuso, limitato, qual è il nostro pianeta.
Sulla dimensione potenzialmente mondiale del mercato della forza lavoro le sue analisi sembrano invece più attuali oggi di 150 anni fa. Gli operai inglesi descritti da Engels meno degli sfruttati africani e asiatici di oggi sembrano corrispondere al famoso appello di Marx , ‘’Proletari di tutto il mondo unitevi’’. Non è andata così, malgrado la fondazione di tre Internazionali proletarie e limitatamente al contesto europeo e sovietico.
In compenso, ‘’L’ Internazionale’’ sarà poi cantata da milioni di militanti nel Novecento, quasi tutti bianchi, generosi e occidentali. E russi e cinesi, che la rivoluzione l’hanno fatta davvero, contro ogni previsione, e hanno diversamente fallito.
Oggi, in un mondo dove le chiusure e i sovranismi nazionali tendono a respingere ed espellere nei loro paesi di provenienza i migranti, la sinistra potrebbe almeno su questo punto ritornare a Marx: è il capitalismo a dissolvere le appartenenze, a sradicare le identità nazionali o etniche, a eguagliare come merce la forza lavoro umana sul mercato internazionale. Il compito della sinistra sarebbe quello di ‘’unirla’’, cioè di organizzarla e condurla a lottare al di là delle frontiere nazionali per una radicale redistribuzione delle risorse, orientata al benessere collettivo, alla fruizione di beni anche immateriali, al risanamento del teriitorio e al rispetto delle compatibilità ambientali, piuttosto che al profitto privato e al consumo nevrotico di merci.
La discussione all’interno e fuori da PD sembra muoversi su scenari completamente diversi, e non solo in Italia. Ma fin quando le sinistre non prenderanno atto che le periferie non cominciano a Scampia o in una benlieue parigina, ma a Nairobi e Mogadiscio, i sovranisti che imperversano continueranno a non avere oppositori credibili.