VILLASETA, UN'ASTRONAVE ANDATA IN MALORA di Tano Siracusa
Scrive Teresa Cannarozzo in un suo interessante saggio su Agrigento pubblicato nel 2009 a proposito di Villaseta:
‘La planimetria di progetto, disegnata nel 1969, mostra un altissimo grado di definizione della proposta progettuale e rivela una particolare attenzione nei confronti della configurazione degli spazi aperti e dell’integrazione tra i manufatti architettonici e il contesto. Si tratta di un progetto urbanistico raffinato, che propone una dimensione urbana complessa, con circuiti pedonali differenziati dai flussi veicolari, parcheggi pubblici e parcheggi destinati ai residenti, ma probabilmente poco adatto ai destinatari, che erano contadini o piccoli artigiani con stili di vita legati al mondo rurale e che probabilmente si muovevano con il mulo e con i carretti.’
La considerazione finale sulle probabili consuetudini dei primi abitanti di Villaseta sorprende meno per la sua vaghezza e inattendibilità storica che per lo spessore del problema che solleva. Oggi, per un agrigentino che non ci vive, ma anche per un turista, un giro a Villaseta può risultare interessante e spaesante in uguale misura.
La ‘raffinata qualità’ del progetto è ancora perfettamente rintracciabile come un’impronta alla quale si è adattata però una forma altra dell’abitare. I circuiti pedonali differenziati sono stati in parte invasi dai flussi veicolari, in parte deteriorati dal disuso e dall’abbandono, da un degrado che una natura inselvatichita accoglie e contribuisce a determinare.
La qualità del progetto è evidente a chiunque voglia attraversare quei percorsi pedonali, verificarne la funzionalità, il gusto per la movimentazione degli spazi, l’attenzione all’alternarsi e armonizzarsi dei volumi e degli slarghi, dei sottopassaggi e delle sporgenze panoramiche. Qualità evidente del progetto come il suo fallimento, le cui ragioni profonde è assai difficile comprendere.
E’ andata così anche allo Zen di Palermo, alle Vele di Napoli, progetti ambiziosi, sofisticati, i cui destinatari hanno trasformato adattandoli e rifunzionalizzandoli alle dinamiche della marginalità, dei codici malavitosi, di forme di comunicazione diverse da quelle progettate.
Ci si può chiedere, percorrendo gli spazi del vecchio centro commerciale di Villaseta progettato alla fine degli anni ’60 oppure quelli completamente abbandonati e pressocchè coevi del Parco Addolorata, diversamente ma altrettanto affascinanti, cosa altri abitanti avrebbero fatto e potrebbero ancora fare di quei luoghi. Cosa potrebbero diventare quei luoghi affidati a cittadini socialmente e culturalmente maggiormente predisposti alla loro fruizione. Ci si può domandare se non sia l’idea stessa di pianificazione urbanistica ad essere insensata perché astratta, come l’ambizione di voler plasmare la socialità sulle forme urbanistiche, storicamente affidate invece allo spontaneismo costruttivo. Così è stato per la maggior parte dei centri abitati medievali e per le medine arabe, o per gli agglomerati urbani precoloniali nei paesi non europei. E ci si potrebbe soprattutto chiedere perché lo spontaneismo edificatorio nel secondo dopoguerra sia stato, e non solo ad Agrigento, così distruttivo di ogni nesso architettonico e paesaggistico, così incapace di esprime una cifra urbanisticamente decifrabile se non armoniosa.
Questioni complesse, sulle quali gli addetti ai lavori – sociologi, urbanisti, antropologi - avrebbero molto da dire.
Gli amministratori che si candidano al governo della città possono intanto constatare lo stato delle cose, il loro disuso, i segni del degrado.
Cosa fare? Sembra chiaro come qualunque tentativo di recupero di quegli spazi, di quei luoghi destinati al tempo libero e alla socialità, sia destinato al fallimento senza il coinvolgimento dei suoi abitanti. Il Comune può tuttavia fare molto e molto possono fare il volontariato e il terzo settore.
Scampia è diventata uno dei principali laboratori culturali di Napoli, ma grazie ad un lungo lavoro di connessione fra un diffuso intervento ‘esterno’, pubblico e privato, e le energie migliori di quel pezzo di Napoli, uno dei quartieri roccaforte della camorra. Villaseta, a confronto di Scampia, è un collegio per signorine di buona famiglia e per pensionati devoti nonché una ingenua ma felice utopia urbanistica.
Si dovrebbe ripartire dal ‘gioiello’ di quella utopia, quel centro commerciale progettato dal prof. Ghio e che Totò Tornabene cercava di utilizzare e animare già negli anni ’70.
Agrigento è una città di periferie. La sua prima periferia moderna, Villaseta, costruita dopo la frana, è oggi inserita in un contesto viario ormai da grande area metropolitana, con viadotti, ponti, snodi stradali che ruotano attorno al nuovo centro commerciale, nodo ombelicale ormai di un territorio cittadino che dai pressi di Aragona a nord ovest giunge fino alla periferia di Porto Empedocle e ad est si allarga nell’informe agglomerato di Villaggio Mosè.
In fondo se si vuole visitare una città si comincia dal suo centro: Villaseta, che delle periferie agrigentine ha forse nella rappresentazione comune degli agrigentini la connotazione maggiormente negativa, oltre al suo primato di qualità urbanistica può affiancare una sua paradossale centralità urbana per la prossimità al nuovo centro commerciale. Non ultimo paradosso di una città che ha perso in venti anni una forma urbanistica millenaria impennandosi nelle goffe verticalità dei tolli e straripando verso la valle e il mare. Un ‘americanismo’, una forma di gigantismo, di bulimia dello spazio cementificato, denaturalizzato, che oggi presenta il conto ai figli e ai nipoti di quel disastro e nel quale Villaseta appare un corpo estraneo, un’astronave andata in malora, dove in cima ad una scala abbandonata alle erbacce e piena di rifiuti, invece dei marziani si incontra il comando dei Vigili Urbani di Agrigento.