CENTRO STORICO, UN BENE UTILE DI PROPRIETA' COLLETTIVA di Paolo Minacori
Submitted by Suddovest on Wed, 24/07/2013 - 22:28
La cultura locale non individua più nel centro storico semplicemente un perimetro urbano più o meno abitato, ma una dimensione di valori e pratiche sociali riconosciuti e partecipati da una collettività.
Tale dimensione non si esaurisce nella tradizione culturale, nella riproduzione artificiale di qualcosa di folkloristico, ma si caratterizza come una mediazione necessaria sul piano comunicativo e simbolico tra l’apparato culturale e la domanda individuale di riconoscere, apprendere, socializzare i messaggi, i codici e i circuiti di una condivisa attualità del centro storico stesso.
D’altra parte il centro storico ha smesso di essere una galleria di memorie, un luogo in cui avveniva la convivenza degli abitanti, è diventato “aggregato urbano”, con un centro sempre più piccolo e sempre meno storico, senza urbs e senza civitas.
Cacciati gli abitanti – comunque cacciati – il centro storico ha subito negli ultimi cinquant’anni diverse trasformazioni: è diventato centro direzionale, poi commerciale, oggi spettacolare-ricreativo e, non di rado, contenitore di disperati.
Eppure senza memoria si impazzisce, non si riesce ad organizzare presente e futuro, tutto diventa povero e schizofrenico. Perdere il centro storico è perdere l’identità, la riconoscibilità, la solidità di tutta l’intera città, è rarefarsi nelle periferie. Non solo urbane.
L’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé. È a partire da questa dinamica differenziale che bisogna pensare che non ha senso far rivivere un centro storico attraverso i canoni del suo passato, né è possibile attuare “sventramenti” risanatori. Il centro storico va recuperato abitandolo e vivendolo, con il ricorso a tecnologie avanzate, ma invisibili, salvaguardando la sua connotazione originale di pedonalità, di rete viaria, di materiali consoni agli originali, di arti e mestieri.
Tutto ciò non ha una ragione nostalgica, passatista o di luogo “sacrale”, ma una necessità salutistica, “decostruttiva” se mi si lascia passare il termine, intesa come necessità di distruggere contenuti stratificati tra dipendenze e compulsioni di una “vita moderna” condannata dallo stigma delle false comodità: auto, ipermercati, inquinamento acustico, luminoso, elettromagnetico, ludico, oltre a solitudine e irriconoscibilità post-modernista.
Ma per testimoniare che è possibile valutare la bellezza e far rinascere un centro storico, il punto non è cosa “fare”, ma cosa si vuole “essere”.
“Essere” consapevoli di una proprietà collettiva di un bene utile. Superare i conflitti, farsi parte attiva e, raggiunta la consapevolezza di cosa si “è”, cosa “fare”.
Dieci, venti, cento persone, che decidano di “essere” la rinascita di un centro storico, di mettere in campo le proprie professionalità, le proprie risorse intellettuali e perfino economiche. Adoperarsi e, attraverso una collaborazione necessaria con la pubblica Amministrazione, dare immediati segnali tangibili alla collettività di operosità. Anche con la determinazione di assumere ruoli e responsabilità amministrative.
Centro storico come centro di tutti, bene inclusivo, la cui intenzionalità è promuovere l’essere e l’agire di una comunità, in un rinnovato rapporto di “bisogno di città” tra radicamento e modernità da non contrappore all’associazionismo d’impresa talvolta dedito a speculazioni insensate, ma piuttosto ridiscutendo, anche in termini compensativi, e riscuotendo una idea condivisa di centro storico.
Il “bisogno di città” occorre contrappore ora all’eccesso di logos, ora all’indifferenza e alla lamentazione, autentiche sventure antitetico-sinergiche e paradosso irriducibile di Agrigento.
Quanti sono disposti, già da domani, a cominciare superando la politica delle differenze?
Tale dimensione non si esaurisce nella tradizione culturale, nella riproduzione artificiale di qualcosa di folkloristico, ma si caratterizza come una mediazione necessaria sul piano comunicativo e simbolico tra l’apparato culturale e la domanda individuale di riconoscere, apprendere, socializzare i messaggi, i codici e i circuiti di una condivisa attualità del centro storico stesso.
D’altra parte il centro storico ha smesso di essere una galleria di memorie, un luogo in cui avveniva la convivenza degli abitanti, è diventato “aggregato urbano”, con un centro sempre più piccolo e sempre meno storico, senza urbs e senza civitas.
Cacciati gli abitanti – comunque cacciati – il centro storico ha subito negli ultimi cinquant’anni diverse trasformazioni: è diventato centro direzionale, poi commerciale, oggi spettacolare-ricreativo e, non di rado, contenitore di disperati.
Eppure senza memoria si impazzisce, non si riesce ad organizzare presente e futuro, tutto diventa povero e schizofrenico. Perdere il centro storico è perdere l’identità, la riconoscibilità, la solidità di tutta l’intera città, è rarefarsi nelle periferie. Non solo urbane.
L’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé. È a partire da questa dinamica differenziale che bisogna pensare che non ha senso far rivivere un centro storico attraverso i canoni del suo passato, né è possibile attuare “sventramenti” risanatori. Il centro storico va recuperato abitandolo e vivendolo, con il ricorso a tecnologie avanzate, ma invisibili, salvaguardando la sua connotazione originale di pedonalità, di rete viaria, di materiali consoni agli originali, di arti e mestieri.
Tutto ciò non ha una ragione nostalgica, passatista o di luogo “sacrale”, ma una necessità salutistica, “decostruttiva” se mi si lascia passare il termine, intesa come necessità di distruggere contenuti stratificati tra dipendenze e compulsioni di una “vita moderna” condannata dallo stigma delle false comodità: auto, ipermercati, inquinamento acustico, luminoso, elettromagnetico, ludico, oltre a solitudine e irriconoscibilità post-modernista.
Ma per testimoniare che è possibile valutare la bellezza e far rinascere un centro storico, il punto non è cosa “fare”, ma cosa si vuole “essere”.
“Essere” consapevoli di una proprietà collettiva di un bene utile. Superare i conflitti, farsi parte attiva e, raggiunta la consapevolezza di cosa si “è”, cosa “fare”.
Dieci, venti, cento persone, che decidano di “essere” la rinascita di un centro storico, di mettere in campo le proprie professionalità, le proprie risorse intellettuali e perfino economiche. Adoperarsi e, attraverso una collaborazione necessaria con la pubblica Amministrazione, dare immediati segnali tangibili alla collettività di operosità. Anche con la determinazione di assumere ruoli e responsabilità amministrative.
Centro storico come centro di tutti, bene inclusivo, la cui intenzionalità è promuovere l’essere e l’agire di una comunità, in un rinnovato rapporto di “bisogno di città” tra radicamento e modernità da non contrappore all’associazionismo d’impresa talvolta dedito a speculazioni insensate, ma piuttosto ridiscutendo, anche in termini compensativi, e riscuotendo una idea condivisa di centro storico.
Il “bisogno di città” occorre contrappore ora all’eccesso di logos, ora all’indifferenza e alla lamentazione, autentiche sventure antitetico-sinergiche e paradosso irriducibile di Agrigento.
Quanti sono disposti, già da domani, a cominciare superando la politica delle differenze?
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