OLTRE IL PANTANO CON IL MITO E UN PIZZICO DI FANTASIA di Alfonso M. Iacono

Il sindaco di Firenze Matteo Renzi dice: “stiamo perdendo tempo”. Ha ragione. Stiamo perdendo tempo. Lo stiamo perdendo non soltanto perché bisogna arrivare in fretta a una qualche decisione sensata sul da farsi (e l’unica decisione sensata è, a mio parere, quella di accordarsi sulla legge elettorale e sugli esodati e andare al più presto al voto), ma perché tutti i (non) movimenti che si vedono attualmente (saggi, politici, burocrazia, non governo, esperti) stanno evidenziando non solo un’andatura a marce basse, confusa e contraddittoria, ma anche la fine di una storia, di uno stile, di un modo di essere. E’ la fine di una concezione della politica basata sulla retorica della ragione della responsabilità, incapace ormai di sapersi pensare non solo al governo e al potere ma anche all’opposizione, fondamentalmente priva di due componenti che sono anzi aborrite e rifiutate come qualcosa di regressivo: il mito e la fantasia. Chi ha visto il film di Stefano Andò Viva la libertà, sa di cosa parlo. Fatto prima delle elezioni, il film narra di un leader politico di sinistra che fugge a Parigi per ritrovare se stesso e al suo posto subentra per sostituirlo il suo fratello gemello, professore di filosofia appena uscito dall’ospedale psichiatrico. Magistralmente interpretato da Toni Servillo e Valerio Mastandrea, Viva la libertà ha il grande merito di dirci cosa manca alla nostra sinistra tradizionale: qualcosa in cui credere, qualcuno a cui credere. Questo bisogno contrasta forse con il senso della democrazia e dell’autonomia? Il mito appartiene forse a una visione totalitaria e populista? Se così fosse, allora dovremmo ricrederci su Nelson Mandela, Barak Obama, Lula, Francesco. Credere non vuol dire ingannarsi. Ce la aveva spiegato proprio un grande filosofo italiano, il solitario Giambattista Vico. Credere vuol dire, al contrario, gettare lo sguardo là dove qualcosa ancora non c’è ma potrebbe e potrà esserci. E noi siamo fatti di qualcosa che non c’è. Il futuro non c’è ancora, il passato non c’è più. Eppure noi viviamo di futuro e di passato. Nel bene e nel male vi è sempre qualcuno che ci aiuta a guardare in avanti, a sognare, a credere e a voltarci indietro e a ripercorrere di nuovo i nostri passi. Che ci inganni o meno, questo sì dipende dalla nostra capacità di essere autonomi (pensare da sé, diceva Kant) e di saper vivere la credenza con quell’atteggiamento critico e con quell’ironia che non la uccide, ma la governa. E invece no. La sinistra è sempre lì con quel suo moralismo pieno di arroganti richiami alle regole e alle responsabilità che poi sono puntualmente smentiti dai fatti (assai diverso è il richiamo alle regole e alla democrazia del Movimento 5 Stelle), con quell’antiberlusconismo legalista che nasconde un berlusconismo culturale e politico. E tutto questo condito con la vecchia e superata idea secondo cui la ragione è superiore alle emozioni e ai sentimenti (domandatelo non solo ai filosofi, ma anche ai neuroscienziati) e con una visione della politica priva di fantasia e di immaginazione. Siamo alla fine, eppure durerà ancora a lungo, come una lenta agonia, probabilmente cosparsa di inciuci, pasticci, richiami al realismo che così tanto piace ai giornali e ai giornalisti influenti, voglia di potere in chiave perbenista. Il perbenismo non fa l’uomo perbene e l’essere un uomo perbene è una condizione necessaria ma non sufficiente per fare politica. Di questo ci aveva già informato il grande storico greco Tucidide.

 

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