RICCHI DI COLORI, POVERI DI SGUARDI di Tano Siracusa
Submitted by Anonymous on Fri, 25/04/2008 - 23:57
[img:1 align=float_right title=none] E’ sempre interessante vedere quali colori inventi la lontananza, quella dei chilometri ma anche quella degli anni. Luigi Galluzzo vive ormai da molti anni lontano da Agrigento, e quando pensa ad Agrigento la vede immersa nel giallo e nel grigio. Il giallo della luce abbacinante, certo. Ma è il grigio che oggi, nella sua immaginazione, ha invaso la città e tutta la Sicilia.
Posso testimoniare che non è così, che non sono questi i colori che vedo dal balcone di casa mia, nel centro storico di Agrigento.
Io da qui vedo il giallo delle tegole sui tetti delle case imbrunito dalle muffe, poi uno svariare di verdi nella valle fino alla fascia azzurra del mare, che sbianca sopra l’orizzonte e si incupisce subito in alto, dove le rondini intrecciano già i loro voli. Questo con un’occhiata distratta.
Che il mare sia azzurro è infatti solo un’illusione della distanza, come nei quadri di Seurat e Signac. Stamattina, dalla spiaggia, il mare era tutto un ribollire di verde smeraldo, viola, bianco, blu cobalto, oro. Aveva le vibrazioni cromatiche di certe marine di Monet.
E due giorni fa, dalle parti della Kolymbetra, il giallo della caracitula superstite e delle margherite era chiazzato dal rosso scuro della sudda e dei primi papaveri. Sembrava di essere dentro un quadro dell’ultimo Van Gogh, che la luce di Arles aveva definitivamente fatto impazzire.
E poi c’è il colore del tufo, il colore dominante nei paesaggi provenzali di Cezanne, che qua e là gli intonaci disfatti nelle case del centro storico lasciano vedere e che, se riportato ovunque alla luce, potrebbe da solo costituire una attrattiva turistica.
Non sono i colori che mancano da queste parti. I colori qui, letteralmente, si sprecano: quello che infatti è mancato e che manca è lo sguardo, sono gli sguardi capaci di vederli, di riconoscere quei colori come una grazia speciale e un destino, di amarli, e poi di offrirli a chi vive a Pordenone, a Sesto San Giovanni, nelle periferie di Roma o di Parigi o di qualunque megalopoli del pianeta come un sogno e un lusso.
La mia generazione, quella di chi è nato dopo la guerra, è stata l’ultima ad essere cresciuta con lo sguardo lungo, disteso sul paesaggio di tetti, valle e mare che si vede da casa mia. Poi la città vecchia è stata abbandonata.
Qualche centinaio di famiglie è andata ad abitare nei palazzoni costruiti lungo la linea delle vecchie mura medievali e ha goduto un panorama straordinario, a volo d’uccello. Ma lo sguardo degli altri abitanti della città è stato spezzato. Il centro storico, dalla valle, non è stato più visibile, e dalle viuzze che si arrampicano verso la cattedrale non sono stati più visibili la valle e il mare, con tutti i loro colori. Non vi furono proteste allora, né ripensamenti poi.
Arrivava la modernità, e pazienza se in quegli anni non sparivano solo le lucciole, sparivano anche i colori, e non solo ad Agrigento.
Da allora, un po’ ovunque, gli sguardi hanno inquadrato i grigi dell’asfalto e del cemento, i colori indecisi e arbitrari degli intonaci o quelli elettrici dei locali e dei negozi nelle notti sempre più lunghe e obbligatoriamente spensierate.
Con soddisfazione quasi generale si è andati avanti così fino alla fine degli anni ’80. Per trent’anni non ci si è neppure accorti che gli sguardi erano stati spezzati, che per tornare ad allungarsi e spaziare rimaneva soltanto il Viale della Vittoria.
Non so bene perché questo sia successo. So che la sinistra non ne ha mai voluto discutere.
Neppure quando, nei primi anni ’90, il problema, sia pure in maniera non sufficientemente convinta, venne posto da Legambiente. E neppure quando l’ingegnere Rizzo presentò il piano particolareggiato per il centro storico, che prevedeva l’abbattimento dei piani alti dei palazzoni.
Silenzio assoluto, a destra, a sinistra, nei circuiti dell’informazione locale. Invece si poteva fare una discussione molto utile e molto politica sugli sguardi e sui colori che gli sguardi non incontravano più. Si poteva cominciare a discutere del senso e della convenienza di una modernità di terza mano che sacrificava le risorse del nostro territorio ad un privatismo affaristico, del tutto indifferente alla complessa stratificazione storica e paesaggistica del nostro territorio.
Invece la sinistra, quella dei partiti e quella diffusa, ha preferito il pragmatismo di una politica che ha prodotto una sconfitta dopo l’altra, fino all’ultimo, catastrofico risultato elettorale.
Quella discussione, adesso che la sinistra è ai suoi minimi storici, si potrebbe forse cominciare. Adesso che anche la modernità è passata, che il mediterraneo ha riconquistato una sua drammatica centralità fra pace e guerra, nord e sud, est ed ovest, e che appare sempre più chiaro come l’unico futuro di questo territorio sia nel recupero del suo passato. Nella intera ricchezza del suo passato: la valle e la città medievale, il sereno sogno ellenistico e quello convulso della lunga stratificazione araba e cristiana, lo loro continuità territoriale e quella dei loro colori. Cancellando dunque, in modo consensuale e graduale e nei limiti del possibile economico e tecnico, i segni urbanistici e gli sguardi spezzati in soli quarant’anni di cattiva modernità.
Posso testimoniare che non è così, che non sono questi i colori che vedo dal balcone di casa mia, nel centro storico di Agrigento.
Io da qui vedo il giallo delle tegole sui tetti delle case imbrunito dalle muffe, poi uno svariare di verdi nella valle fino alla fascia azzurra del mare, che sbianca sopra l’orizzonte e si incupisce subito in alto, dove le rondini intrecciano già i loro voli. Questo con un’occhiata distratta.
Che il mare sia azzurro è infatti solo un’illusione della distanza, come nei quadri di Seurat e Signac. Stamattina, dalla spiaggia, il mare era tutto un ribollire di verde smeraldo, viola, bianco, blu cobalto, oro. Aveva le vibrazioni cromatiche di certe marine di Monet.
E due giorni fa, dalle parti della Kolymbetra, il giallo della caracitula superstite e delle margherite era chiazzato dal rosso scuro della sudda e dei primi papaveri. Sembrava di essere dentro un quadro dell’ultimo Van Gogh, che la luce di Arles aveva definitivamente fatto impazzire.
E poi c’è il colore del tufo, il colore dominante nei paesaggi provenzali di Cezanne, che qua e là gli intonaci disfatti nelle case del centro storico lasciano vedere e che, se riportato ovunque alla luce, potrebbe da solo costituire una attrattiva turistica.
Non sono i colori che mancano da queste parti. I colori qui, letteralmente, si sprecano: quello che infatti è mancato e che manca è lo sguardo, sono gli sguardi capaci di vederli, di riconoscere quei colori come una grazia speciale e un destino, di amarli, e poi di offrirli a chi vive a Pordenone, a Sesto San Giovanni, nelle periferie di Roma o di Parigi o di qualunque megalopoli del pianeta come un sogno e un lusso.
La mia generazione, quella di chi è nato dopo la guerra, è stata l’ultima ad essere cresciuta con lo sguardo lungo, disteso sul paesaggio di tetti, valle e mare che si vede da casa mia. Poi la città vecchia è stata abbandonata.
Qualche centinaio di famiglie è andata ad abitare nei palazzoni costruiti lungo la linea delle vecchie mura medievali e ha goduto un panorama straordinario, a volo d’uccello. Ma lo sguardo degli altri abitanti della città è stato spezzato. Il centro storico, dalla valle, non è stato più visibile, e dalle viuzze che si arrampicano verso la cattedrale non sono stati più visibili la valle e il mare, con tutti i loro colori. Non vi furono proteste allora, né ripensamenti poi.
Arrivava la modernità, e pazienza se in quegli anni non sparivano solo le lucciole, sparivano anche i colori, e non solo ad Agrigento.
Da allora, un po’ ovunque, gli sguardi hanno inquadrato i grigi dell’asfalto e del cemento, i colori indecisi e arbitrari degli intonaci o quelli elettrici dei locali e dei negozi nelle notti sempre più lunghe e obbligatoriamente spensierate.
Con soddisfazione quasi generale si è andati avanti così fino alla fine degli anni ’80. Per trent’anni non ci si è neppure accorti che gli sguardi erano stati spezzati, che per tornare ad allungarsi e spaziare rimaneva soltanto il Viale della Vittoria.
Non so bene perché questo sia successo. So che la sinistra non ne ha mai voluto discutere.
Neppure quando, nei primi anni ’90, il problema, sia pure in maniera non sufficientemente convinta, venne posto da Legambiente. E neppure quando l’ingegnere Rizzo presentò il piano particolareggiato per il centro storico, che prevedeva l’abbattimento dei piani alti dei palazzoni.
Silenzio assoluto, a destra, a sinistra, nei circuiti dell’informazione locale. Invece si poteva fare una discussione molto utile e molto politica sugli sguardi e sui colori che gli sguardi non incontravano più. Si poteva cominciare a discutere del senso e della convenienza di una modernità di terza mano che sacrificava le risorse del nostro territorio ad un privatismo affaristico, del tutto indifferente alla complessa stratificazione storica e paesaggistica del nostro territorio.
Invece la sinistra, quella dei partiti e quella diffusa, ha preferito il pragmatismo di una politica che ha prodotto una sconfitta dopo l’altra, fino all’ultimo, catastrofico risultato elettorale.
Quella discussione, adesso che la sinistra è ai suoi minimi storici, si potrebbe forse cominciare. Adesso che anche la modernità è passata, che il mediterraneo ha riconquistato una sua drammatica centralità fra pace e guerra, nord e sud, est ed ovest, e che appare sempre più chiaro come l’unico futuro di questo territorio sia nel recupero del suo passato. Nella intera ricchezza del suo passato: la valle e la città medievale, il sereno sogno ellenistico e quello convulso della lunga stratificazione araba e cristiana, lo loro continuità territoriale e quella dei loro colori. Cancellando dunque, in modo consensuale e graduale e nei limiti del possibile economico e tecnico, i segni urbanistici e gli sguardi spezzati in soli quarant’anni di cattiva modernità.
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