LA VILLA DEL SOLE OVVERO IL REBUS DELL'AGRIGENTINITA' di Tano Siracusa

Guidando l’auto nella propria città può capitare di trovarsi immersi in uno stato di coscienza stuporoso, favorito dagli automatismi dell’abitudine, nel quale la consapevolezza di sé e del mondo esterno galleggia sul confine incerto fra una completa evanescenza e l’illuminazione rivelatrice.  In queste condizioni un evento minimo, reso pressoché invisibile e comunque insignificante dalla sua reiterazione, può liberare all’improvviso ulteriori e più vasti orizzonti di senso.

Ad esempio può capitare, incorporati come guidatori all’automobile, interamente comandati dalla sua inerte necessità, di trovarsi a calcolare la percentuale degli altri automobilisti che fanno uso delle frecce (attorno al 10 %) e ritrovarsi all’improvviso a ragionare attorno al rebus della agrigentinità.

L’agrigentinità è come il carciofo, non si finisce mai di sfogliarlo: strati e strati di lingue, di religioni, di mondi culturali diversi.E se anche il suo nucleo fondativo, la sua noumenicità non vengono afferrati, il paesaggio è quello, lo si riconosce uno strato dopo l’altro, ogni strato più profondo e sottile e rivelatore del precedente. Ed è un paesaggio che appare subito dominato dalla inessenzialità, forse dalla irrealtà degli altri. Gli altri non esistono, e se esistono peggio per loro.

Nove su dieci automobilisti agrigentini non segnalano davanti a un bivio con la freccia dove intendono andare, oppure se hanno deciso di accostare, magari in seconda fila. Di solito rallentano progressivamente al centro della strada, si fermano, sostano un po’, e poi lentamente, come per un ultimo residuo di malavoglia più che di indecisione, si spostano ma solo di poco verso la loro destra, lasciando sulla sinistra un varco angusto per il sorpasso. Mettere la freccia è un’operazione semplicissima, soprattutto se inserita negli automatismi della guida, ma ha senso solo nel presupposto che gli altri ci siano, che siano reali. Per nove automobilisti agrigentini su dieci questo presupposto è quanto meno problematico. L’utilizzazione dei segni ha in effetti senso soltanto nel presupposto che ci sia qualcuno, un livello di realtà, in grado di decodificarli e che quel qualcuno o qualcosa meriti il minimo impegno di un’operazione semplicissima.

D’altra parte se gli altri sono irreali o dimensionati a un livello minimo e inessenziale di realtà, anche la dimensione del pubblico, di un orizzonte comune, del bene comune, viene sottoposta ad una radicale svalorizzazione. E’ comune ciò che non è solo mio, ciò che è mio e degli altri, un paesaggio, un panorama, la facciata di una chiesa e i prospetti esterni delle case, il Parco Addolorata, la Villa Garibaldi e la Villa del Sole.

Ma gli altri non ci sono, sono pressoché irreali, un niente di realtà e di valore in relazione alla mia realtà e al mio valore ( e a quelli dei familiari, degli amici, dei compari di mafia o di qualche corporazione). E così è stato possibile costruire abusivamente nella valle e distruggere il boschetto di s. Leone, far sparire 60 anni fa la Villa Garibaldi e 50 anni fa la facciata di s. Rosalia, lasciare all’arbitrio e all’incuria dei proprietari l’arredo esterno, ‘pubblico’ delle loro abitazioni, permettere l’abbandono e il degrado del Parco Addolorata e, oggi, minacciare di costruire nella Villa del Sole un grande impianto sportivo, compromettendo una delle ultime vedute pubbliche, comuni, della valle e del mare dalla città.

Insomma guidando in uno stato di lucido sonnambulismo si può riconoscere che la ragione per cui nove automobilisti su dieci non mettono la freccia è la stessa per cui la città che abitiamo è diventata in 60 anni orrenda: per un connotato profondo dell’agrigentinità, quel morboso, allucinatorio egocentrismo che in Pirandello ( nel suo ‘idealismo’ si scriveva ancora negli anni ’20) ha avuto solo una adeguata declinazione letteraria. L’altro esiste solo dentro il mio sguardo, è reale solo all’interno della mia esperienza.

Anche se non se ne afferra la noumenicità, tuttavia si ha la sensazione di avere sfogliato il carciofo dell’agrigentinità, nei suoi strati più profondi e sottili e rivelatori del suo nucleo genetico: che l’incorporazione all’automobile nella guida, e il conseguente disimpegno della coscienza negli automatismi della gestualità, abbiano potuto favorire la piccola rivelazione, è solo la prova ulteriore di una distrazione che non mi sembra solo personale.

D’accordo quindi con chi chiede di far sentire la voce di quanti non ci stanno rispetto allo stravolgimento di Villa del Sole. Ma con il dubbio e il timore di passare per i Malogioglio del ‘2000, di testimoniare a futura memoria la vana pretesa di essere reali al cospetto di chi ha il potere di decidere. Nei confronti dei quali possiamo soltanto, pirandellianamente, affermare di esserlo ‘reali’, chiedendo una volta di più di uscire dalla loro cornice, di inquadrare la città dentro la cornice degli altri. Ma non di quegli ‘altri’ che siamo in città, i soliti professorini ambientalisti, ma dell’Altro, dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Quella che ha visto la città dei templi trasformarsi nella città dei tolli e che troverebbe nello scempio di Villa del sole un’altra occasione di meritato sputtanamento. Alla faccia della città d’arte, cultura e turismo e delle chiacchiere dell’intera classe dirigente su questo tema.

A duecento metri in linea d'aria, vicino allo stadio Esseneto, c'è una mostruosa incompiuta di probabile destinazione sportiva, con un formidabile impatto visivo, che non avrebbe mai dovuto essere autorizzata e che naturalmente non si ha il coraggio di demolire. Non si può completare e utilizzare questa costruzione invece di sconvolgere la villa?

Ma per porre questa domanda bisognerebbe essere reali come amministrati nei confronti di chi ha il potere di decidere, così come per mettere la freccia bisogna credere alla realtà degli altri automobilisti. Bisognerebbe che in questa città la cittadinanza, la sua dimensione pubblica, fossero reali per chi ha il potere di decidere. Finora non è stato così.