TRENTENNI TRA FUGA E NOSTOS (ALGHIA) di Davide Natale
Roma,febbraio 2005. Sera ore 23 e trenta
“Sono i migliori che vanno via, e forse è giusto così”. Fu così, Tano, che dicesti qualche tempo addietro, mentre cercavamo, affannati e confusi, di ‘chiudere’, prima che io ritornassi a Roma, l’ultimo numero di Fuorivista. Ed io, stupidamente lusingato, sorrisi appena per celare l’imbarazzo che mi procura una frase, una considerazione, fosse anche una carezza pubblicamente donata.
E certo era che non apparteneva ad una tua intenzione volgermi un complimento, fra l’altro così arduo che, non solo non merito, se non nella cifra in cui son certo di non meritare ma, lasciami dire, per l’elegante intelligenza che ti contraddistingue.
Ma tu, Tano, affermasti, timidamente ed abbastanza chiaramente, che da Agrigento si parte e lo si fa per vivere, lavorare, forse anche per sopravvivere, peggio affermarsi, e nuovamente dicesti che a partire sono i migliori. Considerazione la tua che adesso, e non ho ben chiaro per quale fra i tanti motivi, ritorna pressante, prepotente.
L’ultima volta che sono tornato ad Agrigento, lo ricordi, ed esattamente un giorno prima che tu partissi per Londra, avemmo modo, come sempre del resto, di incontrarci. Appena torno, o meglio, ritorno, sento forte la necessità di ricongiungermi con gli affetti lasciati mesi prima, ed è questo, ovviamente, il vero motivo del ritorno. Ma tu questo lo sai bene, lo sa bene la mia famiglia che, a volte, sembra sospendere, questo avverto, il tempo, nell’attesa delle festività che, spogliate di qualsiasi altro valore risultano più simili ad una bramosia ancestrale dopo il lungo purgatorio di tempo, che ad altro.
Si fa strada, adesso, fra le parole, l’atteggiamento dolcissimo e infinito dei miei genitori che, ad ogni mio ritorno, fanno in modo che la mia camera, quella che mi ha visto entrare con la cartella ed uscire con la valigia, resti così come è sempre stata, soltanto un po’ più ordinata, e la casa nel suo intero più simile a quella che conosco. Ed ogni cambiamento, necessario o stucchevole, precedentemente annunciato da una telefonata… “Abbiamo cambiato le tende della cucina… Si è rotta la lavatrice, sai, non mi dispiace, era troppo rumorosa… Oggi pomeriggio io e papà andiamo a vedere…”.
Eravamo, quella sera freddissima di dicembre, seduti attorno al solito tavolo del solito bar tu, Vito, Daniele ed io, e fra mille altre cose avesti modo di raccontarmi le ultime, ultimissime novità su Agrigento. “Il prossimo numero della Rivista” dicesti, “lo facciamo su Agrigento”. Affermazione perentoria e dolce allo stesso tempo. Agrigento, in fondo, è la nostra città, pensavo, e sarebbe ovvio dedicargli un numero di Fuorivista, in verità un altro ancora. E cominciasti ad intercalare, perché è così che ci piace a volte, tacitamente, volontariamente, il nostro dialetto, come a marcare l’aria di ‘sicilitudine’, come ad apporre un marchio di appartenenza comune ad un luogo, il nostro, che è tanto più nostro quanto più utilizzato, bevuto al calice. Ed è forse per questo, o per lo meno lo è anche in misura bastevole, che ti scrivo.
E mentre sto qui a scriverti ricordo quando, quest’ultimo Natale trascorso ad Agrigento, ebbi modo di sentire, rivolta a me, una considerazione straordinaria: “Ma a te, oramai, che cosa interessa di Agrigento? Vivi a Roma!”. Straordinaria, ti dicevo, per l’assoluta superficialità che la contraddistingue, per la piena pochezza che possiede.
Adesso sto, invece, qui a scriverti. A scrivere di Agrigento vista da lontano. Io, che sono nato ad Agrigento, ad Agrigento ho vissuto per parecchi lustri adesso, che ‘mi son visto di spalle che partivo’, mi trovo a Roma, apolide per costrizione e soddisfatto per orgoglio e professione. E Agrigento, a volte, lo sai bene, te ne ho parlato, ritorna, risale dalle narici come un odore forte. Tu, Tano, quella sera mi raccontasti, poi, di vicende ultime intorno la volontà, di alcuni, di costruire ad Agrigento un centro commerciale, forse anche più d’uno, e affermasti il tuo assoluto, certo ed ovvio rifiuto di qualsiasi positiva possibilità verso un simile scenario. “Il centro storico”, mi dicevi agitandoti, battendo forte la mano sulla gamba, “Il centro storico”. Ed io pensavo che a Roma, ogni angolo di strada nuova, chiude o apre con un centro commerciale, un enorme supermercato, babele di profumi e colori, dove tutto è possibile comprare e a basso costo mentre io (sorrido adesso di me), preferisco la piccola bottega sotto casa dove, ovvio, la frutta è un po’ più cara, l’odore non è proprio di pulito bensì, a volte, di stantio, dove la scelta dei prodotti è molto più ristretta ma, ed è gratis, grande la simpatia, il saluto pronto come di vecchia data ed alcune monetine in più per un prodotto, penso, valgono nulla rispetto un sorriso ed un saluto sinceri. Al bar, lento pede, mi hai poi parlato della nostra sinistra, della sinistra agrigentina; e poi ancora di Giandomenico e delle sue esuberanti idee, di Daniele e la sua, contrapposta alla nostra, convessità, di Mimmo e della sua vita, e di come Amelia abbia dato linfa vitale alla rivista.
Mi hai chiesto come stavo, mi hai raccontato come stavi (per quanto sia narrabile, sai bene, come assunto e non percepibile attraverso le infinite e variegate pieghe del viso, per l’accurata ricerca di termini, della loro estrazione fra gli altri e dei tempi esatti per esprimerli).
E poi, nuovamente, come a percuotere violentemente il ferro, Agrigento. Il suo futuro attraverso il suo passato, tralasciando l’oggi. L’ infame oggi che la sovrasta.
Adesso, ti dicevo, mentre scrivo, sento forte la sensazione del mio essere, è adesso il caso, Fuorivista. Ed è ovvio che io lo sia. L’essermi da Agrigento decentrato, allontanato, mi ha posto ai margini della marginalità di Agrigento, posto alla periferica centralità di Roma o, semplicemente, appunto, Fuorivista. E se questo è vero, e tale mi sembra, non può giustificare l’affermazione secondo cui, adesso, Agrigento non sia più la mia città.
Ricordi certamente di quando parlammo, con me entusiasta di quella lettura, del Gattopardo, e di come Don Fabrizio non trovasse soluzione alcuna all’essere, disperatamente, siciliano. E forse ha ragione lui. Nel nostro sentirci perfetti e nella miseria, che intorno sovrana incombe, in fondo non c’è soluzione. L’unica, ma a venti anni è gia troppo tardi, la crosta si è già formata, andare via, allontanarsi, defilarsi. A lasciare campo libero a chi regna indisturbato sulle rovine di Agrigento. Ed io sento forte questa crosta indurita che mi avvinghia, che costringe, che s’impone con naturalezza in ogni mio gesto e nel più nascosto dei miei pensieri. E la considerazione più sorprendente che sento è che tutto questo, ovviamente, mi procura brividi di orgoglio. Aveva ragione Don Fabrizio, certo che aveva ragione. E noi, uomini a statuto speciale, altro non cerchiamo che normalità, che la più ovvia delle normalità che natura umana possa desiderare.
Agrigento, come ti dicevo, per alcuni agrigentini non è più la mia città, non mi appartiene più dal momento in cui ho deciso di trasferirmi altrove (e per le lungimiranti menti che partoriscono tali aborti, ovviamente, non importa né dove né perché), e certamente Agrigento non mi appartiene nemmeno per chi, ad Agrigento, gestisce, cura, o dovrebbe curare, gli aspetti politici più importanti. Per costoro, dal primo dei consiglieri comunali all’ultimo dei potenti, mi chiedo che ruolo abbiano tutti gli agrigentini che hanno deciso di allontanarsi da Agrigento. Mi chiedo quali soluzioni (se è da considerarsi problema) possiedano per evitare che fra non molti anni la nostra città (hai notato vero?, nostra!), sia sempre più vuota di chi, a venti, trenta, o anche più, anni decide di andare via.
Ed intanto qui a Roma si vive bene, sempre meglio. Ho imparato a voler bene, sinceramente, a questa città, così come si vuol bene ad una donna che, intervenuta improvvisamente durante la lacerante agonia di un rapporto precedente in rovina, affascina ed ammalia, invaghisce, e sorprende del caso la sua necessaria voluttuosità, la sua carezza forte e dolce, il suo essere intervenuta prima dell’oblio. La nostra colonia romana, quella dei periferici centralizzati, degli esseri a statuto speciale, come ci piace definirla, è ben assortita e molto allegra. Francesco, Giuliana, Giovanni, Alessandro, Giorgia, Gianluca, Carlo son coloro i quali incontro spesso, se non addirittura sempre, e compongono, insieme a tanti altri che incontro per caso, scorgendo nei loro occhi la sorpresa di incontrare un loro simile, più simile di altri, fra i milioni di uomini intorno, una piccola, festosa, attiva, integratissima tribù. E ci accomuna, anche, un sorriso beffardo, teso ad affermare, veramente e sinceramente, che la condizione del nostro vivere a Roma è, sicuramente, privilegiata.
Ti racconto un brevissimo accadimento. Oggi, un caro amico, e non un semplice collega di lavoro, mi confidava che è sua intenzione, non appena sua figlia, anch’essa architetto, avrà modo di lavorare, di cederle il suo posto allo studio. “Io ho 56 anni…” mi raccontava con fare attento “…e posso anche, senza alcun problema, fare diversamente. Lei ha bisogno, adesso, di iniziare, di lavorare, e mi piacerebbe che a instradarla, fossi io. Dopo, mi farò da parte. Non voglio che subisca lo strazio della disoccupazione e decida, spero di no, di andare a Milano, così come mi ha confidato ieri sera”.
Tu sai Tano, a cosa sto pensando, vero? Tu sai a cosa faccio riferimento? Conosci bene, infatti, la tentazione che si prova nel sentire forte la voglia di dire esattamente tutto ciò che si pensa, senza provare a controllare molto parole, gesti, tono di voce ma, semplicemente, dire. E tutto nasce, improvvisamente, da accadimenti soltanto in apparenza non legati fra loro. Dalla rabbia e dalla preoccupazione di un padre che decide di farsi da parte, di cedere, alla propria figlia, il proprio posto di lavoro per non saperla andar via, lontano dai suoi ricordi e dalla sua storia. Gesto di estremo egoismo o di enorme altruismo, non so. Dipende dai punti di vista e dalle proprie certezze, dai propri dubbi, dalle proprie paure e gioie.
Certamente anche dai propri doveri. E sai anche, Tano che, adesso, sto pensando alla incancrenita e fallimentare ‘vecchia guardia’ di Agrigento, ancora adesso imperante e sovrana, politicamente, moralmente, mafiosamente colpevole del degrado infinito che ha prodotto, ma surrettiziamente aggrappata allo scoglio, in balia del vento e del mare, ma sempre lì, immobile, più deleteria che inutile, a guardia della propria putredine.
E lasciami aggiungere, Tano, quanti nomi potremmo fare? Chiamare per nome chi governa e chi si oppone o, molto meglio, chi malissimo governa Agrigento e chi benissimo finge di opporsi. Nascondendo, in entrambi i casi, squallidi interessi comuni, accordi sottobanco mirati, non vedo, in fondo altre alternative, alla sporca pecunia.
E poi, come sempre, prossime le elezioni, arriveranno i soliti venditori, almanacchi in mano, a sventolare meraviglie future. Chiederanno di comprarne uno. Ad anno nuovo meraviglia nuova. E così via. E c’è ancora, vi giuro non mento, chi acquista a caro prezzo, la speranza, per l’anno che verrà, di un posto di lavoro per il proprio figlio. Non scordano mai, che non accada, di cambiare tutto per non cambiare nulla.
A conclusione è doveroso scusarmi, avendoli vanamente citati, con i mitili, gli scogli e il nostro straordinario mare che li ospita così generosamente. A tutti loro un grazie sincero.
A presto. Ti abbraccio forte.
Davide