CENTRO STORICO. COSA SALVARE, COSA EVITARE di Davide Natale
Caro Tano,
il tuo lucido ragionamento, è evidente, chiede e sollecita l’apertura di una discussione pubblica sul centro storico di Agrigento. Discussione che, come dici, non è mai abbastanza, ed è giusto, quindi, che esca dagli ambiti privati dove spesso l’abbiamo relegata e nascosta.
E forse in questo momento storico, di inizio di campagna elettorale, non saranno soltanto gli intellettuali (categoria alla quale ti inscrivo consapevole della smorfia di fastidio che subirai in viso), ad esprimersi ma, come mi auguro, anche gli addetti ai lavori, gli abitanti del centro storico e tutti coloro i quali avranno da dire qualcosa. Con la speranza, comunque, che se ne parli, senza alcuna tentazione di strumentalizzazione da parte dei soliti vecchi arnesi, o nuovi gingilli, della politica di questa città. Per quel che è mio, ovvero, come sai bene, per il ruolo di prossimo abitante del centro storico, non mi sottraggo alla precisa sollecitazione del tuo ragionamento. Ed in particolare mi preme soffermarmi a ragionare, o per lo meno provare a farlo, su un aspetto che cogli in modo molto chiaro e, come ben dici, al netto degli aspetti strettamente economico-finanziari, e burocratici, che terrorizzano anche me oltre che te, e che se assecondati mi proietterebbero in un inferno inestricabile. Anche per questo non ho voglia di inserirmi tra la surreale discussione a distanza tra il Sindaco Zambuto e Lillo Miccichè, timoroso di un precipitare franoso di uomini e leggi, articoli di leggi e commi, e aggiungi tutto ciò che vuoi.
Mi sembra, invece, molto più interessante oltreché affascinante, un aspetto che cogli ed evidenzi in modo lucidissimo e di cui spesso abbiamo discusso privatamente. Infatti penso che quando affermi che “fra il ripristino del già e non più esistente e il restauro dell’ancora esistente bisognerebbe decisamente privilegiare il secondo”, individui non soltanto una ampia tipologia di manufatti del centro storico, ma un metodo di approccio alla lettura del problema e una metodologia di possibile intervento e risoluzione. Aspetti tutti che meritano una riflessione. È evidente, infatti, che come ogni centro storico, anche quello di Agrigento è caratterizzato da una serie di elementi pieni, quali fabbricati (anche se non sempre pregevoli), chiese ed edifici di culto, piccoli manufatti architettonici o agglomerati più complessi, tutti in un disomogeneo stato di uso e conservazione, i quali sono posti in alternanza a vuoti urbani, pause del costruito, silenzi. Questi vuoti sono, talvolta, espressione dell’urbanistica medievale, come le piazze, i cortili o gli slarghi e, altre volte ancora, sono vuoti creati da abbandoni e crolli avvenuti nel tempo, e che si susseguono, ancora oggi, con sempre maggiore frequenza. Ma che il centro storico sia il momento attuale di tutto questo processo, l’istantanea fotografia del presente ancora in posa, non è fin troppo scontato affermarlo. Infatti: oggi, anno 2012, cosa è “centro” e cosa è “storico” di questo agglomerato di case, vicoli e piazze? A quale tempo passato ci riferiamo nel catalogare un edificio appartenente al “centro storico” rispetto ad uno del “centro non storico” o della “periferia storica”? In sintesi quale metodologia adoperiamo, o dovremmo adoperare, quando parliamo di centro storico, quando separiamo l'antico dalla modernità? Credo sia questo uno degli aspetti che dovremmo, senza timore, analizzare ed affrontare. E questo perché, come è noto, ogni centro storico è, in quanto tale, la stratificazione di depositi avvenuti nel corso degli anni, così come lo sarà, negli anni a venire, ciò che oggi decideremo di edificare, riempire o lasciar vuoto. Ed ancora. Converrai che un qualsiasi manufatto architettonico è, oltre che una semplice occupazione di suolo, invasione di spazio, quindi accadimento formale, anche un elemento con una funzione urbanistica e sociale ben precisa. Per mero esempio, infatti, se contrapponiamo due corpi di fabbrica, una chiesa ed un edificio residenziale, planimetricamente identificati da un rettangolo di eguali misure, questi si sviluppano nello spazio in modo del tutto differente, così come differente sarà la funzione che assolveranno e, di conseguenza, il ruolo che avranno nel tessuto sociale che li accoglierà. Ed inoltre: un vuoto, derivante da un crollo o, come tu lo definisci “un già e non più esistente”, non sarà mai simile ad un vuoto, pur delle stesse dimensioni planimetriche, nato quale slargo, piazza o cortile ed il quale principia dal sedimento storico che lo ha generato. Risulta, invece, simile ad un vocabolo non appartenente alla lingua di questo centro storico, un abuso edilizio in negativo, un'assenza di pieno.
Ma è questo il punto di maggiore difficoltà, punto dolente e mai risolto; l’individuazione dell’antico che esiste e della modernità che si impone e che si manifesta in svariati ambiti: forme dell'abitare e materiali dell'edilizia, necessità di spostamenti e presenza di automobili, modifiche della domanda e dell'offerta abitativa.
Per quel che mi consta, oggi, per antico del centro storico di Agrigento individuo in prima istanza il tessuto composto da vicoli e piazze, edifici residenziali e edifici di culto, in quel rapporto di pieni e vuoti che ne caratterizza la forma del costruito e del vivere che non è periferico diradato ma, appunto, centro. E solo in seguito individuo la tipologia dei materiali, il loro colore e la loro provenienza. E laddove, quindi, in ultima analisi individuo per modernità la capacità che le nuove tecnologie posseggono, qualora correttamente impiegate, di consentire all’antico di eternarsi (o tendere all’eterno), per salvaguardare la forma di un vissuto che senza la modernità stessa è destinata a cedere il passo alla cancellazione e al solo ricordo.
Ciò deciso, credo, possa concorrere al risanamento degli “ancora esistenti”, alla ricostruzione dei vuoti/crolli, a un non più rinviabile progetto di pedonalizzazione e svuotamento dalle automobili, nell’assoluto rispetto del tessuto urbano e con la rigorosa esclusione di nuove edificazioni, di qualsiasi forma e funzione esse possano essere. Discutendo, caso per caso, le rifunzionalizzazioni dell’attuale per evitare il rischio di trapiantare corpi estranei.
Il tutto per evitare quegli errori sintattici (forma dell'edificio rispetto al contesto), ed errori grammaticali, attraverso l'uso di vocaboli errati (materiali, colore dell'edificio, etc…).
Ciò che ritengo non più rinviabile, infatti, è la necessità di un progetto di ampio respiro frutto di un ragionamento che tenga conto di quanto, nostro malgrado, è già accaduto, che decida con coraggio cosa e come salvaguardare dalla cattiva modernità del centro storico, e che scelga la strada da percorrere e la direzione da seguire. Laddove, ancora una volta, per cattiva modernità intendo lo sventurato scempio perpetrato dagli orrendi palazzoni, il loro ergersi a sfregio dei rapporti di vuoti e pieni, di misura e cifra dell’abitato esistente, l’uso di un linguaggio architettonico altro rispetto a quello preesistente, il consentire non soltanto il transito ma anche la semplice sosta delle automobili, l’ipotizzare ancora nuove edificazioni e, peggio, nuove funzioni (siano esse alloggi per anziani o spazi a verde ben progettati), ben distanti però, tutte, dallo spontaneismo abitativo che è, in ultima analisi, la vera natura del centro storico di Agrigento. Quello spontaneismo che non dovrebbe né cedere, più di quanto abbia già fatto, alle lusinghe della modernità, alle sue luccicanti ed ammiccanti comodità, ed alle fin troppo vane promesse di eternità, né, al contempo però, negarsi il tempo che trascorre, che modifica ed invecchia, sulle facciate dei palazzi così come sulla faccia della gente, e accettare e permettere alla modernità della medicina una sana cura ma non un accanimento terapeutico.