L'ALTROVE E IL SUO ABITANTE. INTORNO A SETTIMIO BIONDI di Tano Siracusa
(Sarà tra poco in libreria 'Una festa americana e altri scritti' di Settimio Biondi.Pubblichiamo in anteprima l'introduzione di Tano Siracusa)
La redazione di Fuorivista apriva come la coda di un pavone l'ampio ventaglio generazionale dei collaboratori, che si allargava dai ventenni agli ottantenni. Ne eravamo orgogliosi. Quelle sventagliate erano un ulteriore espediente per far ruotare le prospettive e moltiplicare i punti di vista, gli spiazzamenti. Per la nostra testata avevamo scelto un buon nome, decisamente programmatico.
Ma se cercavamo un inedito altrove, privo di esotismi e semplificazioni, se volevamo uscire dalle nostre cornici interpretative che raccontavano la città e il mondo, se eravamo curiosi delle distanze psicologiche e geografiche, sociali e culturali, era quasi inevitabile che si finisse per gravitare attorno a Settimio Biondi.
Lo andavamo a trovare nel suo studio che si affaccia su piazza Bibbirria, quasi un eremo laico ai bordi della città diocesana. Il nome arabo della località congiurava ad alonare il luogo di un oltranzismo delle lontananze che faceva assumere alle nostre visite le proporzioni e gli sconfinamenti del viaggio, del pellegrinaggio. Piazza Bibbirria in fondo è vicina, dieci minuti a scendere e il doppio a salire da via Atenea, ma lo studio di Biondi era lontano.
Ci si andava raramente, come raramente si parte. Perchè si vive nella ferialità che è fatta anche di domeniche e feste comandate, di abitudini, ripetizioni e sonnambulismo. Però ogni tanto, rimanendo nella propria città, si decide di partire; e allora anche le regolarità più ostinate cedono all'eccezione, al deragliamento nell'imprevisto, nell'azzardo del non ancora visto e pensato.
Andare a trovare Settimio Biondi nel suo studio era la nostra eccezione alla ferialità, il nostro deragliamento, la festa del viaggio. Andavamo per ascoltarlo, rammaricandoci ogni volta di non aver portato con noi neppure un piccolo registratore. Già infatti sciupava e scoloriva nel ricordo il gusto dell'incontro, l'iniziale disorientamento e poi lo stupore e una specie di euforia bizzarra, che sembrava inalata da un'invisibile sostanza esilarante.
La droga erano le sue parole, lo scorrere delle sue parole, quel suo prodigioso estro affabulatorio che viene arginato da scorrimenti sintattici funambolici, da continui scarti e digressioni, deviazioni e rientri, e alimentato da un magma lessicale che rimescola strati profondi di italiano letterario e siciliano, greco, latino e arabo. I suoni e i segni, le stratificazioni diverse di 'senso' che hanno abitato nei millenni la sua città - mondo.
Nelle parole di Biondi non c'è infatti solo la città e neppure il mondo senza la città. Biondi pensa Agrigento attraverso il mondo e guarda il mondo attraverso il prisma del microcosmo cittadino.
Ho colto tante volte sulle facce di quelli che lo ascoltano la stessa espressione sospesa fra la stupefazione e il rapimento che si osservava fra le piccole folle che circondavano nelle piazze del Marocco i narratori popolari, i cantastorie. Volti troppo rapiti per capire il trucco che in effetti non c'è, perchè è reale solo il talento, quel saper soffiare la magia nelle parole. E' reale solo quel dono.
Nel caso di Biondi la lingua è il calco di una intelligenza sinuosa, che predilige le complicazioni ipotattiche, i percorsi imprevedibili e laterali che offrono vedute spericolate e improvvise su paesaggi inediti, connessioni inaspettate, camminamenti ipogeici che rasentano gli illusionismi di Esher e le paradossali simmetrie dei labirinti: per approdare alla fine ad una verità tanto plausibile quanto deviante.
Forse miraggi, forse verità storiche.
Biondi si definisce uno storico ed è un grande narratore. Dello storico possiede la passione e il puntiglio per le fonti, il gusto filologico, del narratore la certezza che le fonti sono a loro volta frammenti di un unico grande arazzo narrativo che non si può mai fare a meno di ritessere ed estendere. L'ultima verità è sempre provvisoria, ed è sempre costruita dalle parole, dall'artificio letterario che, nel caso di Biondi, esprime una predilizione molto politica e morale per il basso, il periferico, per il fuori le mura.
Come Rabato, il quartiere occidentale sorto fuori le mura chiaromontane,il rovescio arabo e contadino della città dei grandi signori laici ed ecclesiastici. L'inversione oppositiva e anarchica alla città del potere.
Lì Biondi è cresciuto, quel quariere è lo scenario favoloso della sua infanzia, e la sua realtà è quella immaginaria e vera che solo il mito e la letteratura possono creare. Rabato come Macondo, come Aci Trezza, come un altrove che è anche alterità: morale, civile, culturale, politica. E Biondi scrittore fa tornare il bambino, l'adolescente, che osserva e interroga, ascolta e ricorda per lo scrittore che racconterà mezzo secolo più tardi quel mondo, quei personaggi: mons. Vaianella, il contadino diventato prete e formidabile grecista, mons. La Rocca, gigantesca figura di uomo e di intellettuale, oppure Grassia, il "fiero e sboccatissimo Grassia: un traditore della terza età, un sicofante del passato e dei suoi nascondigli, uno spregiatore di ogni arte e mestiere, un cavalcante di vita e di morte e di altro ancora, che pari non ce n'erano".
E i luoghi, le tresche, le avventure, e se stesso bambino. Personaggi leggendari e realmente esistiti, esattamente come è Biondi oggi e come sarà quando un altro Biondi lo racconterà per averlo conosciuto da bambino; e sembrerà ai postumi un personaggio inventato, un altro Vaianella, un altro La Rocca o Grassia: l'iperbole di un romanziere. A torto, perchè il destino della letteratura è di non essere creduta anche quando racconta la realtà. A ragione, perché la realtà del racconto non è mai la realtà raccontata.
Fra noi ne discutevamo. Cos'è Biondi, uno storico, un saggista, un narratore? Nei testi che ci passava ormai con regolarità per la rivista, sembrava che la verità storica venisse conferita innanzitutto dalla necessità del linguaggio, dello stile, dalla evidenza allucinatoria della creazione letteraria. Così sembrava a noi, anche se non toccava a noi stabilirlo, o comunque tocca a chiunque lo legga. Ci dicevamo che fa pensare a Vico più che a Cartesio, più a Gadda che Calvino. Ma noi eravamo e siamo dei dilettanti di fronte ai suoi testi. Anche e molto nel senso del nostro, soggettivo diletto di lettori.
Questo volume, che ai testi pubblicati su Fuorivista aggiunge 'Una festa americana', ormai introvabile, e alcuni inediti, può offrire ottimi materiali per cominciare una riflessione criticamente adeguata sulla sua produzione, in gran parte inedita.
Fuorivista era più un'utopia che un azzardo; e tuttavia di ritorno dagli incontri con Biondi nel suo studio e poi leggendolo sapevamo che quel luogo utopico, quell'altrove dove la periferia si ribalta nel centro e si rovesciano le gerarchie, coincide con un luogo reale e con uomo che lo abita. Averlo capito e potere permettere ad altri di capirlo è stato uno dei meriti principali di Fuorivista.