ANDREA CAMILLERI IN UN CONVEGNO ROMANO di Dante Bernini

 Qualche settimana fa, nell’Auditorium Parco della Musica di Roma si è svolta, a cura della Sellerio Editore, una Duegiorni, come si direbbe nel gergo sportivo, dedicata alla ”letteratura di Andrea Camilleri”, un “caso”, a voler guardar bene, ancor prima  che di “rivoluzione editoriale” come lo definiva, e  pour cause, il programma della manifestazione, più pregnantemente  letterario. Camilleri, ce lo racconta egli stesso, e ripetutamente, nasce poeta, sotto l’
ala, se bene ho compreso, ungarettiana, seppure con un umore  che lo distingue nettamente dal caposcuola.

Le prove più remote del suo fare poetico mi sono sfuggite, le prime che conobbi (ed erano in sostanza brevi couplets in settenari a rima alternata (abba) mi furono fatte leggere, dattiloscritte, dall’amico comune Gaspare Giudice negli anni intorno alla conclusione della seconda guerra mondiale, quando eravamo appena usciti, chi un po’ prima, chi un po’ dopo, dal Liceo e cercavamo ciascuno la sua via coincidente alla fine con l’Università, facoltà di Lettere, ma con esiti professionali in realtà molto differenziati, nel senso che ciascuno seguì una propria strada senza alcun vincolo di gruppo, coltivando la propria inclinazione o solo le necessità pratiche, secondo le opportunità (assai poche e povere) che il momento
difficile poteva presentare.
Andrea si dedicò al teatro, in cui già si muoveva da ragazzo, a livello
dilettantistico, quando frequentava ancora il liceo e fondò col compianto amico Ugo La Rosa cineamatore e in quanto tale più tardi  documentarista cinematografico, una sorta di compagnia studentesca (si chiamava “Tre Assi”) dedita più che altro allo spettacolo minore, se vogliamo, di rivista o di cabaret, unica via di fuga dalle ristrettezze mentali della dittatura che affiggeva la società italiana nel momento più tragico della sua storia come si svolse nel XX secolo. In altri termini, la scelta fatta da quei ragazzi, aveva
una dimensione giocosa, il cui riscontro colto poteva rintracciarsi nella frequentazione almeno libresca del teatro libertino settecentesco.

Era in ogni caso una scelta di agilità e leggerezza, compiuta d’istinto, molto prima che fossero note le predilezioni stilistiche teorizzate, ad esempio, da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, una scelta tipicamente teatrale, che trovò conferma definitiva nel seguito dell’attività a cui professionalmente Camilleri si dedicò, gli studi sempre di ambito teatrale all’Accademia di Arte drammatica, dapprima allievo, quindi insegnante, fino al pensionamento dall’
attività didattica, ma non dal teatro, dove continuò a svolgere importanti funzioni anche nell’ambito della Radiotelevisione pubblica. Il suo ingegno drammaturgico trascinò  in un’atmosfera, non so se dire fiabesca, perfino il talento del narratore, rivelato  in quel breve primo romanzo edito da Garzanti sotto il titolo Un filo di fumo, che si apre già nello scenario, poi più spesso ricorrente della Vigata,come sopravvive nel ricordo dell’ambiente familiare.

A me personalmente, come un po’ dubitoso sul giudizio che ne avrebbe tratto l’amico, rivelai a Camilleri, sembrò il canovaccio per un balletto, con quei docili personaggi ingenui o sornioni  che apparivano o scomparivano dalla scena, appunto con passo di danza, un salto, un frullo d’ali nell’aria che sa di mare e di zolfo. Di ciò e di quant’altro poteva servire a svolgere il tema proposto relativamente alla figura letteraria di Camilleri in tutte le sue estrinsecazioni, drammaturgiche, narrative, perfino ontologiche, discusse una sorta di sinedrio presieduto da Salvatore Silvano Nigro e composto da, ciascuno nella sua specialità, Antonio D’Orrico, Leopoldo Fagiani, Melania Mazzucco, Mauro Novelli, Francesco Recami.

Alla conclusione della giornata provvide lo stesso Camilleri, stimolato sul doppio tema del comico e della sicilianità dal Duo Ficarra & Picone. Successo scontato, come sempre per Camilleri.