PENSIERI IN MARGINE ALLA MIA MOSTRA ALLE FABBRICHE CHIARAMONTANE di Alfonso Leto

Si è inaugurata così, com’è giusto che sia, semplicemente, la mia mostra FABBRICHE/LETO alle Fabbriche Chiaramontane, il 14 novembre scorso. E chiuderà i battenti il 10 gennaio del nuovo anno. Lasciando alla pittura, da uno spiraglio aperto sulla sala, l’attrazione del pubblico che sempre più numeroso si è lasciato condurre alle varie sezioni interne, e alla fascinazione che mi auguro le singole opere abbiano saputo generare. La pittura con i suoi ultrasuini ha finito con il reclamare gli sguardi del pubblico, senza altre mediazioni.

Difficilmente la parola dell’artista è capace di venire incontro al proprio lavoro, specie quando l’opera è forgiata in modo da rivendicare una propria autonomia di linguaggio, e svincolarsi perfino dalla proprietà dell’autore che non può, in questi casi, che porgerla al pubblico con maggiore docilità di quanta ne sia intercorsa tra me e le mie opere, al momento di metterle al mondo.
Un’apertura semplice, appunto, anche per scelta, possiamo dire, politica e culturale che sembra ricalchi bene i tratti della realtà che ha prodotto e offerto la mostra alla città di Agrigento: le Fabbriche Chiaramontane, una realtà “singolare e plurale” nel panorama non solo agrigentino ma anche siciliano. Singolare perché non è possibile trovare in Sicilia una strutturazione così elegante e socializzante del concetto di cultura: un piccolo e riservato gruppo di collezionisti che in piena autonomia attraggono le opere d’arte, le conducono attraverso un percorso amorevole nella loro dimensione privata (dove ciascuno è dominus delle proprie scelte) e poi, una volta metabolizzata, creano le condizioni per una accoglienza condivisa delle opere stesse, riuscendo attraverso lo sguardo e il consenso (o la critica) del pubblico a porre le basi di una comunicazione culturale di alto livello. “Plurale” perché questa realtà può accordarsi bene con altre realtà di eccellenza che in Sicilia costituiscono davvero un porto sicuro per l’arte e gli artisti: penso soprattutto (per conoscenza diretta) all’Istituto di Alta Cultura Fondazione Orestiadi di Gibellina, alla Fiumara d’Arte di Antonio Presti a Tusa, a Museum di Ezio Pagano, a Bagheria; tutte realtà in cui alla base c’è un autentica pulsione di mecenatismo e di collezionismo illuminato e pionieristico.
Non è poco, è tantissimo, in una dimensione in cui l’ambito pubblico della cultura è funestato e molto spesso conformato dal presidio politico che finanzia col danaro pubblico una innumerevole catena di privilegi molto spesso immotivati, di scelte sovente conformate ad una sorta di variazione allo stato domestico dell’arte e degli artisti, ad una dinamica di costruzione di veri e propri cordoni sanitari entro cui molto spesso la mancanza di qualità e di rappresentatività di una libera espressione culturale è rigidamente tenuta fuori. Tutte le nostre città ne sono scenari.
Al di la del dato personale, ho assistito, in questi giorni, ai sistemi di lavoro e di produzione di un evento culturale, da parte degli Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento (nome che a molti può sembrare limitativo e che invece a me, che milito per l’inattuale e per la leggenda, appare ricco di significati: l’Ottocento è stato un secolo rivoluzionario. Perché disconoscerlo? Come diceva Marcello Marchesi del reddito: “perché dovrei denunciarlo? Dopo tutto il bene che mi ha fatto?”). Ho visto il livello di professionalità, la dimensione di gioiosa officina dell’arte che dal suo Presidente, Nino Pusateri, al suo più stretto collaboratore (in termini cinematografici direi il “produttore esecutivo”) Paolo Minacori, agli altri associati, alle professionalità esterne di servizio in ogni ambito: di consulenza, allestitivo, grafico, di promozione-stampa e ogni altro aspetto pubblicitario, può essere preso come un modello europeo da tutti quei baracconi elefantiaci che talvolta si mettono in moto con una sperequazione enorme di mezzi e energie…molto spesso per partorire eventi non solo inutili, ma che nuocciono alla comunicazione culturale in una comparazione di taglio internazionale tra eventi espositivi di ogni settore (dall’arte antica al contemporaneo) e spesso danno una mano a far piombare una città nell’oscurità di una cultura asservita, fatta di questuanti, di servi e camerieri dell’arte o come dice Achille Bonito Oliva di “artieri” e non di “artisti”.
Ma soprattutto ho potuto scorgere i tratti autentici del mecenatismo contemporaneo: di quello cosciente che, promuovendo cultura, per conto proprio e non “su commissione” si toglie terreno all’orrore quotidiano, ai nemici dell’umanità variamente travestiti che perpetuamente tentano, in ogni città del mondo (e ancor più qui da noi), di fagocitare territorio e riprendersi lo spazio e le coscienze. Ecco anche perché quello spazio urbano in cui hanno sede le Fabbriche sembra presidiato dalla bellezza, una bellezza militante, un avanposto dell’arte che parla alla città e ad essa pone le sue condizioni.
La città di Agrigento, può guardare alla realtà autonoma della Fabbriche Chiaramontane con fiducia. E a giudicare dal riscontro di pubblico ( al di la dei meriti del mio lavoro) vedo che questa fiducia e questa empatìa tra Fabbriche e città non manca. Il pubblico agrigentino, ma direi ancora, il pubblico siciliano può, se vuole, veder specchiato il proprio desiderio di autonomi a e di libertà di scelte culturali, nella libertà e autonomia che sono proprie di questo organismo vivente che giorno dopo giorno fa si che la città delle Rovine, recuperi il senso della costruzione del futuro, della possibilità di dire “parole” che non siano per forza dettate dagli stereotipi culturali che la città ha nutrito per così tanti anni da sentirseli calcificare addosso.
La presenza di tanti giovani così interessati all’arte contemporanea è il segno di una nuova fiducia che la città offre alle Fabbriche e implicitamente chiede ad esse di continuare a farsi, nel pluralismo delle espressioni e delle offerte, uno spazio di integrità e di autenticità culturale, la stessa che ha permesso me e le Fabbriche (con le personalità che le incarnano) di incontrarci sullo stesso terreno di intesa, di autenticità e di autonomia.