OSPEDALE DI AGRIGENTO, EFFETTI STRAORDINARI DI ORDINARIA ILLEGALITA' di Giovanni Taglialavoro

Si può non ridere, non piangere, ma tentare di capire davanti al dramma di un ospedale nuovissimo reso inutilizzabile  per disposizione della magistratura?  Si può e si deve. Il dolore, per il venir meno di un presidio sociale, la rabbia, per un diritto essenziale di cittadinanza negato, non devono impedirci di guardare negli occhi il mostro e cercare di capirne la natura, il pericolo e, se ne siamo capaci, per  sconfiggerlo ed eliminarlo.

L’evacuazione e la chiusura prossima dell’ospedale di Agrigento sono un caso da laboratorio per capire la questione meridionale oggi. La sua metafora o, se volete, l’epifania della mediazione dissipativa che definisce il modello meridionale.

Ci si può consolare mettendo sotto accusa spettri del passato o ‘la mafia’ oppure guardare in faccia la realtà e vedere quello che il disastro ci manda a dire. Ci troviamo davanti ad effetti ancora più gravi di quelli di un terremoto.  L’ospedale di L’Aquila è rimasto chiuso solamente per poche settimane pur avendo subito lesioni e crolli e in continuità di scosse sismiche di un certa consistenza. Quello di Agrigento dovrà essere evacuato del tutto. Ma mentre a L’Aquila è stata l’eccezionalità di una natura matrigna, che colpisce ma ‘federa’ gli uomini, ad Agrigento la fonte del disastro è stata la normalità, la banalissima e quotidiana società meridionale, che non avremmo riconosciuto nella sua mostruosità se dei magistrati non avessero ipotizzato gli effetti potenzialmente devastanti del suo modo ‘normale’ di costruire e di amministrare.
Il cemento depotenziato è stata ed è, probabilmente, una normale prassi costruttiva. Il complice silenzio dei direttori dei lavori,  un corollario normale; i permessi e le autorizzazioni amministrative assicurate dagli amici, un quasi atto dovuto. In altre parole: la negazione della legalità e la mortificazione dei meriti, la vanificazione dei diritti. Ossia la normale realtà siciliana di tanti decenni.
E’ giusto che gli Agrigentini oggi chiedano, se è necessario gridando, garanzie a chi governa alla regione e a Roma sulla continuità di un presidio sanitario nel capoluogo nelle forme anche emergenziali, ma è decisivo, se vogliamo cambiare veramente qualcosa, che si abbia il coraggio di guardarci dentro e di andare fino in fondo al pozzo della follia della nostra normalità.
Quella follia normale per la quale le gare di appalto vengono aggiustate, eludendo le leggi e calpestando i meriti, quella follia per la quale i dirigenti pubblici destinati al controllo rispondono non alla legge ma al politico, o alla parte politica, che li ha nominati; quella follia normalissima per la quale il reparto di ospedale si crea per assegnare un primariato e non il contrario; quella follia per la quale la scelta degli amministratori della Asl e dell’ultimo portantino compete ai partiti e agli uomini che li controllano e non ai criteri di riconoscimento dei meriti professionali.
Non si sta tentando di parlare di altro, ma di parlare di questo preciso disastro che è la prossima chiusura del San Giovanni di Dio. Ai magistrati il compito di accertare singole responsabilità,  a tutti noi il dovere di fare i conti con una mediazione dissipativa.  Un modello fondato sull’allargamento della mediazione assistenziale piuttosto che sulla sua eliminazione o riduzione, sul mantenimento dello status quo piuttosto che sul rinnovamento. Il fulcro di tale modello sono l’illegalità e l’indifferenza ai meriti.
Non determina ribellioni fino a quando si mostra capace di stratificare i disagi e di allargare l’area degli invitati alle cene.
Considerate il servizio idrico di Agrigento: si spende più del doppio di Milano, ma non si ha il doppio di acqua di Milano, e non si registra alcuna protesta significativa in quanto l’adattamento privato al disservizio ne ha diversificato  molto l’impatto sulla vita quotidiana delle famiglie.
Nel caso dell’ospedale i magistrati non hanno determinato una realtà di emergenza ma semmai un’emergenza del nostro sguardo su una normalità troppo e da troppi accettata come immodificabile.
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