LO SBARCO SULLA LUNA E L'ACQUA SVAPORATA di Giovanni Taglialavoro
Attraversò il viadotto Morandi diretto in centro. Uscì per via Dante e costeggiò il fianco della collina franata nel 1966. Dopo un’ampia curva, vide alla sua destra, in alto, la chiesa dell’Addolorata e il varco tra essa e la roccia di tufo, bucata da grotte un tempo brulicanti di umanità e di bestie.
Era il vecchio ingresso che dalle campagne del Fondacazzo portava al Rabato, il quartiere contadino di Montelusa. Lì i nuovi padroni della città, guidati da Ruggero il normanno e benedetti da Gerlando, il francese, rinchiusero i musulmani sconfitti che continuarono per secoli a coltivare i campi e gli orti per il vescovo e i signori, fino a quando una frana non spopolò il quartiere spostando a Villaseta, lungo la vecchia strada che conduceva al Caricatore di Porto Empedocle, i suoi abitanti. I resti di quelle antiche case, abbandonate per anni, erano abitate adesso da nuovi musulmani, tornati nei vicoli tracciati dai loro antenati, intatti nei profumi di zagara e di gelsomino, familiari nei suoni dei toponimi (Cubaitari, Mazara, Bac Bac, Bibirria…), con cortili e viuzze intricati come nei loro paesi e nelle loro città, ma dove si muovevano stanchi e offesi da giornate intere di lavoro massacrante, di disamore e diffidenze.
Luigi passò il varco, e subito dopo, fermò la macchina davanti alla cancellata della chiesa. A piedi si diresse verso la scalinata di Santa Croce.
Era spossato, ma non aveva voglia di andare in albergo.
Arrancava sulle basole grigie e ruvide degli scalini, che affrontava lentamente, mentre ricordava che proprio sulla loro superficie aveva tante volte affilato la punta della sua tortula per rendere più devastanti le pizzate alla fine della mucata. Era il più piccolo del gruppo, aveva sei anni o forse sette, e per questo solo a lui era permesso di usare la lazzata per spingere la sua tortula contro quella che stava sotto, mentre la regola era che dopo averla lanciata a terra, si dovesse prenderla, roteante, in mano, e dalla mano scagliarla, prima che smettesse di girare, sulla tortula che stava sotto. Il gioco finiva quando si arrivava alla meta e la tortula che vi giungeva stando sotto, riceveva da tutti gli altri un certo numero di pizzate. E qui, in queste basole, si affilava l’arma, strusciandone la punta dopo averla annaffiata con abbondante saliva.
L’eroe di quel gioco era Carmelo che una volta svelò solo a lui, così almeno gli disse, come era riuscito a far fare alla sua tortula in movimento quel particolare e minaccioso sibilo che tutti ammiravano con stupore e timore: prima di inserire il chiodo da dieci dentro la tortula di legno, che andava comprata oltre la timpa, al quadrivio e non in via Garibaldi, bisognava catturare una mosca e sacrificarla dentro il buco in cui il chiodo andava ad conficcarsi.
Al culmine della scalinata si aprì la piazzetta di Santa Croce: in fondo non era cambiata molto dai giorni della sua fanciullezza. Era stato chierichetto in quella chiesa e aveva servito la messa con un campanello di bronzo, multiplo e pesante, che andava afferrato con le dita tra i tralci che reggevano la corona dei campanelli e suonato girando il polso a destra e poi a sinistra, indovinando esattamente il tempo tra le misteriose giaculatorie latine che il prete biascicava. Una tensione continua che si allentava quando, al momento della mescita del vino e dell’acqua nel sacro calice, Luigi versava molta acqua e poche gocce di vino aspettando che gli occhi bassi e assorti del prete si alzassero fulminanti a rivendicarne molte di più.
Gli rimbombavano echi di lontane filastrocche “Apparecchi americà etta i bummi e si ’nni và” oppure “Unni vidi ca un ni vò, pedi di vò, pedi di vò, quannu passi da badia…” e poi? non riusciva a completare il verso. Ricordava soltanto che quest’ultima filastrocca veniva cantilenata dai ragazzi quando passavano le mucche o le capre coi loro padroni che vendevano tra le case porzioni di latte munto davanti a chi lo comprava e che andava bollito prima di inzupparvi il pane. Altre volte, quando era possibile, la madre lo mandava nella grotta di zu’ Caloriu con la tazza in mano a prendere il siero che veniva a galleggiare in un liquido verdastro nella pentolaccia del latte messo a cuocere per ricavarne ricotta fresca e lo zu’ Caloriu lo raccoglieva con compiaciuta e lenta maestria in una paletta rotonda bucherellata e da lì distribuito direttamente nelle tazze dei clienti.
Luigi fu investito da un calore improvviso, stava sudando, gli girò la testa, si sentì mancare, ma riuscì a sedersi su uno scalino posto all’ingresso di un catoio disabitato.
Passarono due africani con alle spalle borse stracolme che non erano riusciti a chiudere e che lasciavano intravedere i soliti orologi, occhiali da sole e braccialetti. Guardarono Luigi e andarono oltre, verso le loro case annunciate da musica e odori di salse che le loro donne stavano preparando.
Luigi si riprese, si alzò e andò verso i vicoli, senza una meta precisa. Non incontrò né bambini vocianti che giocassero negli spazi ancora sgombri di macchine né donne e vecchi seduti nei cortili nonostante la serata tiepida e asciutta invitasse ad uscire dalle basse case di tufo, sberciate negli intonaci o ferite da innesti anodizzati. Si ritrovò a San Giacomo e da lì a vanedda Sferri. Seguì una stradina laterale e fu attratto da un vicolo strettissimo che non aveva mai visto: lo attraversò, pochi metri e si trovò in un enorme cortile, una vera e propria piazza nascosta, chiusa nei suoi lati da basse case, il vicoletto come unico varco. Era lastricata con lucide e lisce pietre di fiume ancora abbastanza connesse e illuminata da tenui luci giallognole, un gioiello tanto prezioso quanto sconosciuto o forse proprio perché sconosciuto e tuttavia orribilmente offeso da un palazzo moderno la cui sagoma incombeva oltre la fila delle case basse. Non c’era nessuno fuori, neanche lì; dalle finestre e dai balconi delle case attorno odori di sugo, melanzane fritte e basilico e voci televisive di programmi diversi.
Si ricordò l’estate del primo sbarco americano sulla Luna: il conduttore televisivo chiedeva commenti ai suoi ospiti sull’evento straordinario. Ad Alfonso Gatto chiese in particolare a chi pensasse in quel momento storico: “A Marilyn Monroe”, rispose il poeta, e non disse il perché.
L’indomani di quella maratona televisiva, con Stefano e altri, Luigi si trovò proprio nel centro storico, dalle parti del quartiere di San Michele, tra la Badia Grande e la scalinata della Madonna degli Angeli dove ancora abitavano i proletari montelusani, immaginati più che conosciuti, evocati più che disponibili alla loro pratica sociale.
Avevano un volantino da distribuire casa per casa. “ Proletari, ancora un’estate senza acqua. La democrazia cristiana, che da sempre sgoverna la città con la maggioranza assoluta, ha altro a cui pensare: fare i piani di lottizzazione per arricchire quelli che già sono ricchi, i padroni delle terre edificabili e i capitalisti costruttori; l’acqua arriva ogni dieci giorni per un’ora? Per loro non è un problema: nelle loro case e in quelle dei loro amici arriva tutti i giorni e poi hanno serbatoi per accumulare acqua per un mese. I proletari coi bidoni alla fontana di Bonamorone. Questa è discriminazione di classe! I partiti della sinistra non fanno niente si sono imborghesiti. Facciamo sentire la nostra voce di protesta…” . Il testo era stato scritto da Luigi. “ Tu ormai abiti al Viale della Vittoria e non sai neanche dove stanno di casa i proletari, come parlano, cosa pensano” gli aveva detto Stefano ironizzando sul carattere astratto e complicato del volantino. Gli sembrava tutto esterno all’esperienza quotidiana dei poveri che lui conosceva avendo continuato a vivere nel centro storico prima di andarsene all’Università a Bologna. La discussione nel gruppo fu accesa e alla fine prevalse l’impostazione di Luigi.
“ Buongiorno possiamo disturbarvi?” il gruppo si fece coraggio e si avvicinò al primo proletario che era seduto davanti alla porta di casa indossava una canottiera bianca, pantaloncini grigi e sandali di gomma con calzini. Accanto a lui una donna riempiva le bottiglie di ‘astratto’.
“ Mi dicissiru” rispose il proletario.
“ Stiamo organizzando una protesta per la mancanza di acqua. Lei che ne dice?”
“ Ma io mi persuado che è colpa dello sbarco dell’ americani sulla luna. Un cavudu come questo non me lo ricordo mai. L’acqua svapura facilmente. Forse si guastà l’equilibrio da natura”.
“No, non c’entra”, intervenne Amelia. “E’ la DC che ha mandato un uomo della corrente di Bonfiglio al Voltano e un altro della corrente di La Loggia al Comune e i due si fanno la guerra. E poi hanno altro a cui pensare: i piani di fabbricazione, gli appalti…”
“ Ma scusassi, lei non è la figlia dell’ingegnere Riggio?”
Amelia diventò rossa di vergogna e rabbia, temeva che il proletario, individuandone l’estrazione di classe, la allontanasse.
“ Sì… sono io” ammise sottovoce.
“ Ah che fortuna” - riprese il proletario. “Rosì, Rosì, vieni qua, guarda che fortuna”, esclamò nuovamente rivolgendosi alla donna che riempiva le bottiglie. “ Vidissi chi ci dicu: un lavoro nella ditta di suo padre, in uno qualunque dei cantieri di suo padre, per me sarebbe come un impiego statale, tanto fosse importante. Lei ci può mettere una buona palora?”