VOGLIO RINGRAZIARE MONS. FRANCO MONTENEGRO di Antonio Quagliata
Leggendo l’articolo sull'omelia di mons. Montenegro, ho rivissuto le sensazioni che ho provato in una calda sera del 2006, il nove luglio per la precisione, quando il rigore di Fabio Grosso, dopo un' esaltante partita, decretò la vittoria della nazionale italiana sull’odiata rivale; la Francia.
Di quella sera ricordo il passaggio del simulacro di San Calogero per il Viale della Vittoria, seguito da un corteo scarno di persone elegantissime, molte delle quali visibilmente assenti; è strano, ho pensato com’è possibile che una partita di calcio, sebbene importante, possa far vacillare la fede e il fervore che anima di solito gli agrigentini in quel giorno, ma, subito fuggii quel pensiero, e al passaggio del Santo, mi concentrai sulle immagini dell’incontro di calcio proiettato, per l’occasione, sul video di un noto bar agrigentino.
Poi, i rigori e il determinante goal di Grosso che scatenò l’inferno.
Piazza Marconi divenne in un attimo un vortice di giovani esultanti. E qui, tra la folla di persone e il carosello di auto, scorsi un’autovettura che attirò subito la mia attenzione; i finestrini abbassati infatti, consentivano il pericoloso sporgersi di due giovani neri, che in preda come altri, ad evidente gioia, schiamazzavano, ridevano, si agitavano freneticamente e come loro esaltavano la vittoria della nazionale brandendo con ostentata fierezza l’asta di una bandiera, la nostra, il tricolore italiano.
Stupito, mi chiesi ancora: la patria per l’uomo è quella che gli da’ i natali o quella che lo ospita; e quella che lo fa fuggire o quella che l’accoglie; ma, all'istante, la mia titubanza trovò una risposta in quell’attimo di esaltante gioia, che non era soltanto nostro, che non era soltanto “italiano”.
Quell’istante, inconsciamente accantonato per anni, adesso, si ripresenta prepotentemente alla mia mente, e indelebile mi induce ad una riflessione, mi spinge a riflettere sulle origini della nostra specie, sulla sua diffusione e affermazione, sulla “conquista” del pianeta.
La storia dell’uomo, ha origini ancestrali, risalgono a circa 6,5 milioni di anni i resti più antichi di un individuo africano denominato Orrorin tugenensis; uomo originario, in lingua tugen.
Ma eviterò di spingermi oltre e concentrerò l’attenzione su un periodo più “recente”; il Peleolitico Superiore, quando, circa 40.000 - 35.000 anni fa, l’uomo anatomicamente moderno fa la sua apparizione in Asia ed in Europa.
Quell’uomo, denominato uomo di Cro Magnon per la località francese dove furono rinvenuti i primi resti, fu proceduto nel suo esodo da un ominide, Homo ergaster, il predecessore della nostra specie, che raggiunge l’Europa circa 1,7 milioni di anni fa, a tale periodo risalgono infatti i più antichi fossili di quest’essere umano trovati a Dmanissi presso Tiblisi, in Georgia, al di fuori quindi del continente africano.
Dall’Africa quindi, e verso l’Asia e l’Europa, ergaster, si evolverà in specie diverse: Homo erectus, in Oriente, e Homo heidelbergensis in Occidente. In seguito, si sarebbe evoluto in un’altra grande specie tipicamente europea, l’uomo sapiens-neanderthalensis, o più comunemente uomo di Neanderthal che si diffonde in Europa e nel vicino Oriente circa 250.000 anni fa.
Homo ergaster quindi, sarebbe il precursore di diverse specie di ominidi che in Europa, si sono evolute e specializzate, ma, in seguito, come tutte le specie specializzate si sono estinte al variare delle condizioni climatiche che ne avevano caratterizzato la specializzazione.
Il neanderthal era una uno di questi; una specie umana, adattata al freddo, che non riuscì verosimilmente a resistere e a modificare i propri caratteri adattandoli alle nuove condizioni climatiche; all’aumento della temperatura.
Di quest’essere, che non ha alcuna affinità genetica con l’uomo sapiens-sapiens, non vi è, almeno fino ad oggi, alcuna traccia in Africa; egli sarebbe una specie europea e asiatica, l’evoluzione europea di Homo ergaster, che nacque in Africa e solo dopo, favorito dalle condizioni climatiche e da un notevole abbassamento del livello del mare, sarebbe approdato in Europa dove ha subìto una diversificazione graduale, dovuta all’adattamento alle condizioni climatiche e geografiche degli ambienti che colonizzò.
Tale dottrina (contrapposta a quella del flusso genico), nasce dagli studi del genetista italiano Luca Cavalli Sforza e dell’archeologo tedesco Albert Ammerman che hanno ricostruito la filiazione genetica di questa specie mettendo a punto una teoria, quella del “Eva africana”, secondo la quale i progenitori di sapiens-sapiens sarebbero vissuti in Africa cento o duecentomila anni fa, e solo dopo, avrebbero colonizzato il mondo modificando i loro caratteri. Questa diversificazione è all’origine delle variazioni attuali. All’origine delle razze; all’origine dell’umanità.
L’uomo quindi nasce nero, e solo dopo varia il colore della pelle adattandosi alle condizioni climatiche del luogo, in cui ha deciso di stabilirsi.
Questa tesi peraltro, anche se l’origine geografica non è certamente nota, trova un probabile riscontro genetico nella tribù africana di Kabwe.
Ma, questo “rapido” excursus sull’evoluzione dell’uomo, non vuole comunque essere la sintesi di uno studio specialistico sull’evoluzione umana, la premessa è infatti nel servizio di mons. Montenegro, che mi ha dato lo spunto per evidenziare l’origine africana dell’uomo sapiens-sapiens (la nostra specie) che, ha lasciato l’Africa inseguendo presupposti di vita migliori, seguendo le sue prede che gli avrebbero consentito di nutrirsi e di sopravvivere a condizioni estreme.
Oggi, non si inseguono più le prede, ma, si cercano ambienti di vita più sereni, si spera in una vita più lunga e migliore; oggi, dietro ogni esodo ci sono motivazioni complesse, a volte poco chiare, che vanno soprattutto ricercate nell’umana lotta per l’esistenza, nei complessi rapporti sociali e politici nelle diversità religiose e razziali, nelle guerre intestine.
La quotidiana lotta per la vita, allora, è una delle motivazioni che spinge questi uomini ad abbandonare la loro patria, che da’ loro la forza di affrontare estenuanti e pericolosissime traversate marine e di sopportare le quotidiane intolleranze razziali nei luoghi di soggiorno.
A seguito dell’omelia di mons. Montenegro, ho sentito in strada, diverse persone criticarlo “ non era la sede adatta, quella” dicevano ; “poteva evitare di parlare di ciò” aggiungevano. Io, non conosco mons. Montenegro se non per aver scambiato con lui, “due parole” in modo molto fugace ma, non posso fare altro che condividere pienamente non solo ciò che ha detto ma, anche, dove e il modo in cui l’ha detto, e soprattutto, lo ringrazio per avermi dato la possibilità di rivivere quegli attimi, solo in apparenza dimenticati, di rivedere quei due giovani volti neri, festosi e allegri, sventolare la bandiera italiana.