- Proprio qui?
- Sì, dove il guard-rail è dipinto di rosso.
La guida indica un punto sull’autostrada segnato in rosso sangue, un monumento non inserito in alcun circuito turistico. La comitiva si accalca a guardare dai finestrini, scattano commenti e qualche foto.
- Ecco, lo vedo adesso.
- Sì, ci stiamo passando proprio in mezzo.
Silvana copre il microfono con una mano, le sfugge un’imprecazione tra i denti. Detesta quel punto rosso sull’autostrada, detesta rispondere alle domande stupide dei turisti spinti da curiosità morbosa. Vorrebbe rivolgere l’attenzione al mare, lì accanto, parlare dello strano nome dell’isolotto con la torre diroccata, ricostruire i frammenti del suo discorso interrotto - isola delle femmine, ma sapete perché?- poi tutti a cercare le risposte più assurde e a ridere della spiegazione, niente a che vedere con la vera etimologia di tale Eufemio. Vorrebbe mostrare il verde delle colline, anticipare lo splendore dei mosaici e la ricchezza dell’archeologia. Vorrebbe cominciare in bellezza ma la storia recente ha riscritto le priorità. Così, subito dopo il saluto di benvenuto in aeroporto, il primo impatto è con quel punto rosso sull’autostrada. Con quella guerra mai dichiarata e mai conclusa. Con la guerra fantasma.
- E la voragine, signora?
- Le auto?
- L’esplosivo?
- E i morti?
Silvana fa un respiro profondo, riapre il microfono. Dovrà rispondere, suo malgrado. Parlerà di dimensioni in metri quadrati, di velocità in chilometri per ora, di quantità in chilogrammi e di persone in numeri ma tacerà lo strazio di quel giorno di maggio e la tristezza degli anni a venire.
Ormai si è abituata, è passato tanto tempo, le parole non le si strozzano più in gola, il mestiere ha preso il sopravvento. Racconta ma non parla del dolore: le immagini della capitale a lutto, gli occhi della gente vuoti di lacrime, gli appelli strazianti di una giovane vedova e le bare che sfilano tra gli applausi. Un dolore iniziato in ritardo perché alla notizia, giunta quel sabato pomeriggio all’ora dell’aperitivo con gli amici, si era rifiutata di credere.
Troppo violenta un’esplosione di macchine corpi e tritolo in una tiepida sera di maggio. Troppo sgomento da mandare giù con olive e salatini.
- Dove? Come? Quando?
- Un botto sull’autostrada, una strage! Una guerra!
- Chi? Come?
- Un’autorità, la moglie, la scorta.
- Feriti?
- Morti.
- Perché?
- Sì, signori, le macchine sono state scaraventate lontano dall’esplosione che ha fatto strage di cinque persone innocenti. Si è creata una voragine di trenta metri di diametro e otto di profondità che ha squarciato le due carreggiate dell’autostrada lungo una linea di cento metri. È stata usata una tonnellata di tritolo, con una tecnica detta ‘libanese’. L’uomo col telecomando che ha innescato l’esplosivo era appostato sulla collina di fronte, a trecento metri di distanza.
- Lì, sulla collina?
- Sì, da quella casa bianca.
- Caspita però, che precisione!
Silvana ascolta i commenti e tace. Tace lo spavento di un’altra sera di maggio, in cui l’urlo delle sirene sbaragliò il silenzio del suo quartiere. Tace l’ansia di guardare il telegiornale per scoprire che non c’erano bombe esplose né morti ammazzati quella sera in una villetta al mare. Tace il sollievo misto all’inquietudine:cecchino catturato in contrada Cannatello.
Ma hanno detto proprio Cannatello?
Proprio così. Questo diceva il telegiornale e le sirene per strada confermavano.
Esattamente quattro anni dopo, l’uomo dell’esplosivo aveva un nome: ù verru. Grasso, tozzo, il viso butterato, brutto di una bruttezza comune ma occhi di rara malvagità e mani violente. Una mente criminale responsabile di una guerra spietata ed efficiente anche se mai dichiarata. Questo raccontava il telegiornale e l’urlo delle sirene, là fuori, non dava scampo all’incredulità.
E lei tace l’inquietudine di avere scoperto ù verru suo vicino di casa. Tace la rabbia che le prese quella sera, mentre le notizie in tv si sovrapponevano alle sirene per strada. Tace la rabbia mista al timore ingenuo di averlo magari incontrato e fatto oggetto di una cortesia, nel traffico o al supermercato.
- È venuto giù persino l’esercito, non è vero?
- Sì, pure l’esercito - Silvana annuisce. A fare la guerra al nulla, pensa e non dice.
Si ricorda bene le camionette mimetiche che scorrazzavano per le città, i militari coi fucili graziosamente rivolti verso la popolazione inerme. Tutti sotto tiro, nessuno escluso come se non ci fossero innocenti ma un popolo colpevole di delitti orrendi, di connivenza, di omertà, scarso coraggio o semplice rassegnazione.
Erano anni, quelli, in cui si chiedeva spesso che era tornata a fare. Ogni volta che si scontrava con un militare, o sentiva il dolore gridato per strada o nelle chiese, la domanda era sempre la stessa. Avrebbe potuto restare dov’era a coltivare la malinconia della lontananza. Invece era tornata, ma cosa aveva da offrirle quella terra di morti ammazzati?
- E l’albero? Ci passeremo vicino per una fotografia?
- No, è distante da qui.
- No, signora, mi spiace, non ci passeremo vicino. L’albero non si tocca, non è roba da turisti. L’albero è come la Santuzza sul promontorio, è un santuario, un’icona, un fatto intimo a cui ognuno attacca il suo voto di speranza.
Sull’albero c’è ancora il suo biglietto con una parola sola. La sua ribellione in una parola e un punto esclamativo. Basta! Era stata sul punto di andare via di nuovo da qualche parte, ovunque, purché lontano. Invece aveva incontrato Davide. Lui diceva che andarsene era come abbandonare la nave che affonda e che si doveva fare resistenza passiva, opporre attrito di sana normalità alla criminalità assassina. Questo diceva Davide.
- Ecco, signori questo è il nostro albergo. E quella è l’isola delle femmine – annuncia Silvana, opponendo al ricordo della tragedia un piccolo attrito di ritorno alla normalità - si chiama così perché lì un tempo venivano abbandonate le mogli infedeli. Però come vedete oggi l’isola deserta – conclude, pregustandosi in anticipo i commenti.
- Eh, i mariti gelosi di un tempo si sono estinti.
Silvana sorride, è tornato il buon umore e, a proposito di mariti, si ricorda di chiamare il suo.
- Sono in albergo rientro stasera. Tu?
- Sono ancora sulla statale.
- Matteo?
- Dorme.
- Baci.
Davide riattacca. I capelli arruffati del figlio fanno capolino dal sedile posteriore.
- Era la mamma. Torna a dormire.
Lo scirocco lancia gocce secche di sabbia sul parabrezza. Davide chiude il finestrino e guarda giù: dal ponte sulla statale la vallata si apre alla vista. Dopo tanti anni la carcassa arrugginita è ancora là tra i campi incolti. La sua BMW era nuova fiammante prima che gliela rubassero, quando l’avevano ritrovata era ancora fiammante ma non più proprio nuova.
Fra tante auto proprio la sua. Uno un giorno si compra una macchina e la settimana dopo… La polizia comunque non aveva dubbi, c’erano pure dei bossoli.
Si sentiva in colpa. Per questo ogni tanto portava dei fiori alla lapide con incisi i nomi di padre e figlio. Altre volte si fermava e restava in silenzio. Pagava il suo tributo, non che avesse alcuna responsabilità, al contrario, la sua posizione era stata subito chiarita. A uno gli fregano l’auto nuova parcheggiata sotto casa e si deve pure sentire responsabile! Lavorava, pagava le tasse e si spaccava la schiena, certo in senso metaforico perché in verità stava messo comodo dietro una scrivania, però era pur sempre uno spaccamento di palle. Era una persona a posto e a parte qualche banale errore di contabilità non avevano potuto contestargli granché. Ma non era quello. Si sentiva in colpa per quei due morti, quel padre e quel figlio. In qualche modo il caso lo aveva tirato dentro per i capelli. Il giorno dopo aveva letto la ricostruzione dei fatti sui giornali: 47 colpi sparati contro la Prisma che andava tranquilla sulla statale. Era di settembre, era di sera. Davide immagina i killer seduti sulla sua BMW nuova fiammante, la pistola mitraglietta nel cruscotto di radica.
- Grigio - aveva detto al concessionario - metallizzato, è più elegante.
La sua BMW grigia, elegante, veloce anche, certo, per quello l’avevano scelta, di sicuro non per la gradevole sfumatura di grigio. La sua auto lanciata in velocità al seguito di una Prisma con dentro due passeggeri ignari. La Prisma viaggia tranquilla una sera di settembre. Se anche il conducente fosse tranquillo non è dato sapere ma era un uomo tutto d’un pezzo e gli uomini così, per quanto impauriti, hanno sempre la coscienza a posto. E quindi sì, forse il giudice temeva ma allo stesso tempo aveva la coscienza a posto e in questo senso forse sì, si può dire che fosse tranquillo. Poi magari non s’aspettava che proprio in quel momento con suo figlio accanto… questo sicuramente no, no poteva sospettarlo.
- Tutto bene? - Dallo specchietto Matteo fa sì con la testa.
Poi era settembre, le sere di settembre lasciano quella sensazione avvolgente di caldo che svapora, e rientrava a casa. Sarà stato tranquillo il giudice? Forse. Come può essere tranquillo uno che ha finito di lavorare e rientra a casa col figlio che sonnecchia nel sedile accanto o chiacchiera con lui ascoltando la radio; uno che si spacca le palle dietro una scrivania, pure lui, che magari ha le solite preoccupazioni, la famiglia, il mutuo, il lavoro; uno che sta dalla parte giusta ma che gliela faranno pagare cara. La BMW sorpassa, la Prisma sbanda e si schianta sul guardrail. La sua BMW, nuova, fiammante, veloce, carrozzeria grigio metallizzata, optional del caso: mitraglietta scarica raffiche a ventaglio. L’optional speciale centra il bersaglio, due: padre e figlio.
Davide accosta nel punto esatto in cui due innocenti sono stati uccisi in una guerra mai dichiarata. Non passa spesso da lì ma quando passa si ferma. A volte lascia un fiore sulla lapide, questa volta invece scende e rimane in silenzio. Lo sguardo oltre la vallata come colto da un dubbio che lo inquieta.
Il telefonino lo distoglie.
- Sei ancora sulla statale? - La voce di Silvana ha un potere rassicurante.
- Sì. Ascolta: quand’è che abbiamo deciso di rimanere?
- A quella conferenza, il premio Nobel parlava del coraggio di restare.
- Sì, è vero
- Strano… ci pensavo anch’io, prima. Perché me lo chiedi?
- Niente, avevo bisogno di sentirmelo dire. E c’erano i militari, no?
- Sì, c’erano i militari.
Quei ragazzini in tuta mimetica dalle facce slavate se li ritrovavano ovunque: raggruppati in piccoli plotoni nella via del passeggio, in colonna sugli automezzi, immobili davanti ai palazzi istituzionali. Con la paura aggrappata alle armi restituivano ai passanti il loro fardello di colpa. Questo facevano i ragazzini coi fucili puntati sul nulla.