'CENTO MADRI' di Alfonso Lentini

Una mitica città siciliana, un “principino” e le sue cento madri, opulente e inafferrabili, carnali e misteriose: in un’atmosfera surreale e soffocante un bambino cresce segnato da questa presenza femminile molteplice e variegata che tutto avvolge e tutto possiede.

Ma un senso di colpa, la premonizione di un atroce delitto si insinuano nel fragile equilibrio di questo grande harem e del suo principino.
Come potrà il bambino, ormai cresciuto, liberarsi da questa ovattata prigione? Sarà possibile distaccarsi dalle cento madri senza uccidere qualcosa di sé e di loro?
Con un
Scandito da una lingua stravolta e da un ritmo franto e serpentino, il racconto è giocato in prevalenza su elementi visionari. Si potrebbe considerare una fiaba per adulti, ma una fiaba ben ancorata a tempi e contesti reali: sono chiaramente evocate infatti le atmosfere della seconda metà del secolo scorso (gli anni cinquanta-settanta, grosso modo), mentre lo scenario è quello di un Sud rappresentato nelle sue mille nature, nella sua brutalità e nella sua estrema fragilità, nelle sue avvolgenti malie e nella sua ruvida poesia.
In Cento madri, alternando narrazioni in prima e in terza persona – che esprimono comunque il punto di vista straniante di un personaggio dall’identità indefinita e cangiante (“bambino”, “scarafaggio obeso”, “principino”, “pidocchio”, “mostro”…) – si svolge una concitata rêverie priva di una trama lineare e compiuta dove risalta la presenza pervasiva di numerose figure materne (le “cento madri”, appunto) che nel corso del racconto si diramano a sciame sino a combaciare quasi del tutto con l’universo sociale in cui il protagonista si trova a vivere.
Il tema che maggiormente salta agli occhi è dunque il rapporto con la “maternità” inteso estensivamente come rapporto con la “terra madre”, con l’ambiente e con le radici; un rapporto passionale e conflittuale dal quale germinano i più oscuri sensi di colpa e i più esasperati istinti di ribellione. A questo si riallacciano a grappolo altri temi come la costruzione (o de/costruzione) dell’identità nell’età adolescenziale, il rapporto con la morte, con il sesso, con i propri sogni... Su tutto aleggia la rappresentazione di una società percepita come degradata, violenta e in qualche modo “insostenibile” da parte del protagonista, che fin dall’inizio si presenta come colpevole di un atroce delitto la cui natura sarà via via evocata e definitivamente svelata solo nelle pagine finali.
C’è inoltre, come ammette lo stesso autore, una sorta di collante filosofico che, riecheggiando Berkeley, cerca di tenere insieme il tutto: “un’idea molto ‘duttile’ di realtà, l’idea che le cose esistono precariamente, prendono forma mutevole in base a come vengono percepite ed hanno consistenza solo se qualcuno le percepisce. Pertanto la partenza, l’abbandono, il ‘tradimento’ sono azioni di cancellazione del reale e nella loro ‘violenza’ somigliano a un’uccisione.”
La scrittura si presenta anch’essa come precaria, esasperata, disarticolata, aperta, al punto che alcune parti del testo, senza nulla togliere alla scorrevolezza dell’insieme, sono semplici onomatopee prive di definito valore semantico, simili a scariche elettriche, interruzioni improvvise che indicano la difficoltà del narrare e nello stesso tempo la sua biologica necessità.
 
Cento Madri ha vinto il premio letterario nazionale “Città di Forlì” indetto dal Centro Culturale L’Ortica. La giuria era composta da Giorgio Celli, Eraldo Baldini, Massimo Foschi, Michele Leoni, Andrea Barbieri, Maria Teresa Indellicati, Cesarina Lucca, Marco Mazzoli, Fabrizia Montanari, Rosanna Ricci, Giovanni Spagnoli.
Questa la motivazione: “Con una lingua inventata mescolando arcaismi letterari, termini dialettali, scientifici, pop, l’autore racconta l’infanzia di un ‘principino’ siciliano. La narrazione è tenuta su un registro visionario che porta il lettore in una scena di sogno. Visioni e lingua sono le cose più belle di questo racconto. La lingua dell'autore è coltissima, ma la narrazione non è mai chiusa in un 'genere letteratura' separato e alto: la scrittura resta sempre viva e coinvolgente”.
 
 
Dalla postafazione di Paolo Ruffillli:
 
Il discorso di Alfonso Lentini in questo suo romanzo fortemente sperimentale di grande interesse anche antropologico si fa taglio netto, affondo senza remore al cuore delle questioni; con quel tanto di distacco che sempre, nella produzione dell’autore, si è segnato con riconoscibile originalità come partecipazione/non-partecipazione. Il distacco, insomma, degli spiriti intelligenti che fanno diga al sentimento con l’ironia. Ma un’ironia per così dire implicita, interna, saltellante, tutta venata di ombre; che continuamente richiama, per cenni e sottintesi, il punto fuori pagina, cioè il groviglio dei nodi irrisolti e tragici. Perché tragica, comunque, resta la vita e sofferto il suo percorso sghembo, di cui il narratore si fa interprete dal di dentro proprio perché è stato capace di tenersi al di fuori quel tanto che gli consente la messa a fuoco decisiva sulla storia che ci racconta.
 
Alfonso Lentini è nato a Favara (AG) nel 1951 e vive a Belluno.
Insegnante, si occupa di scrittura e di arti visive.
Fra i suoi libri, La chiave dell’incanto (Marina di Patti, Pungitopo 1997), Mio minimo oceano di croci (Anterem, Verona 2000), Piccolo inventario degli specchi (Stampa Alternativa, Viterbo 2003) e Un bellunese di Patagonia (Stampa Alternativa, Viterbo 2005).
Nelle sue mostre e installazioni propone opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale.
 
 
 
 
categorie: