DON GASPARE E TANO: LORO SI' IN MIO NOME di Pietro Baiamonte
Sono cittadino italiano dalla nascita. Consapevole di esserlo dall’età della ragione, dal giuramento fatto, in pieno sole sulla piazza d’armi della caserma di Trapani, 60° Battaglione “Col di Lana”, nell’anno 1989, con il cuore in tumulto e un nodo di commozione alla gola, mio malgrado. Sono cittadino italiano da quando mi preparavo all’esame di diritto costituzionale, sul manuale che ho riempito di note, a margine o in calce alle pagine, in cui esortavo me stesso, con la foga dei diciottenni, a difendere ogni singolo diritto sancito in quel testo sacro della laicità che è la Costituzione Italiana. Sono cittadino italiano ogni mattina, quando attraverso l’uscio della scuola ed entro in classe, certo, come solo le utopie ci rendono sicuri di qualcosa, di compiere ogni giorno un servizio alla nazione ed alla democrazia con il mio impegno per educare i ragazzi alla libertà, alla consapevolezza di essere cittadini anch’essi, chiamati come tutti a di difendere i diritti conquistati dai nonni nostri e dai padri. Sono cittadino italiano per il fatto che quel giuramento di allora mi lega a questa responsabilità, ed è la linfa che nutre le mie azioni, il mio stesso essere al mondo. Ieri ho messo da parte la stanchezza, il desiderio di restare a casa in compagnia di un buon libro, perché chiamato ad un dovere più alto: ho faticato fisicamente nel montare il palco, sotto la calura, dal quale i fratelli d’Africa avrebbero narrato delle atrocità subite in Libia, dei fermi arbitrari che si tramutano in arbitrarie detenzioni, delle quotidiane rapine al povero bagaglio di dignità con cui hanno abbandonato le loro case, spesso violate, bruciate, macchiate del sangue dei loro familiari, del lavoro che è schiavitù, e che occupa per intero i lunghi mesi d’attesa prima salire su una barca che a stento regge la risacca della spiaggia da cui si prende il largo, dei poveri proventi che assicurano un giro alla roulette russa delle onde e dei capricci dei venti, e che restano ad impinguare le tasche dei trafficanti d’esseri umani, laggiù in Libia, alla corte di Gheddafi; a montare i faretti che avrebbero fatto luce sui fogli di Lia, di Padre Gaspare, che avrebbero disegnato le venature del violino e della pelle del tamburo che avrebbero fatto da coro alle parole. Solo questo: parole e musica, per dire che non in mio nome sono stati ricacciati all’inferno gli uomini respinti. Non in mio nome si è concluso l’obbrobrioso accordo tra il governo libico ed il governo italiano, che condanna il disperato al suo destino, il profugo alla sua perpetua fuga, il povero alla sua insaziabile fame. Non in mio nome, e senza il mio consenso, e contro il mio diniego, si nega un diritto inviolabile sancito all’articolo decimo della nostra Costituzione, figlio dell’orrore provato dai nostri padri di fronte alla ferita dell’Olocausto, e se ne cancella lo spirito. Non in mio nome, contro il mio volere, contro ogni norma di uno stato di diritto, si è manifestata la violenza con cui forze dell’ordine in borghese, di un governo che rivendica con forza le radici cattoliche e cristiane dell’Europa, hanno inseguito e fermato dei senegalesi che da anni, ogni giorno, per sopravvivere, sui lenzuoli espongono la loro mercanzia. Non in mio nome questo stesso governo tradisce così impunemente e senza rimorso alcuno la parola di quel Dio a cui si richiama, l’ecumenicità della eco che risuona nella parabola del buon samaritano. In mio nome si è espressa la rabbia di Tano Siracusa, sconvolto dal triste spettacolo muscolare a cui suo malgrado ha assistito; in mio nome le parole di Padre Gaspare, la sua santa indignazione. Il mio grazie da cittadino italiano va a loro.